Siamo in una società tanto virtuosa e perfetta, che un colosso dell’energia dice esattamente le stesse cose che dicono le associazioni ambientaliste: siamo dunque pronti a sciogliere queste ultime, perché evidentemente non ne abbiamo più bisogno. “E se per salvare il paesaggio un po’ lo cambiassimo?”. Questa pubblicità della Edison è comparsa sul Corriere della sera di venerdì scorso, e reclamizza “parchi eolici e fotovoltaici sempre più avanzati e integrati nell’ambiente”. Nello stesso giorno, su la Repubblica, veniva celebrata la “svolta ambientalista” di Fai, Wwf e Legambiente: “Sì a eolico e fotovoltaico, ecco le nostre condizioni”. A rincarare la dose, sullo stesso quotidiano, un’intervista al presidente del Fai attaccava ad alzo zero le soprintendenze, onorando così il titolo ultra-ideologico (“Dire sempre no è solo ideologia. Il paesaggio non è intoccabile”). E noi che pensavamo che fosse stato “toccato” fin troppo, anzi massacrato!
Se si legge il documento delle tre associazioni, le posizioni sono meno gridate e strumentali di quanto gridino i sullodati giornaloni. Alcune proposte sono sacrosante (soprattutto sul rilancio dei Piani paesaggistici regionali, unici strumenti idonei a decidere dove installare pale eoliche e pannelli fotovoltaici, o sulla necessità di una vera formazione al governo del paesaggio), altre invece inutilmente propagandistiche e sostanzialmente pericolose: per esempio quella che propone pannelli fotovoltaici anche nei centri storici (non ce n’è alcun bisogno: è solo ideologia industrialista), e quelle che sottovalutano i rischi della perdita di terreno agricolo in favore del fotovoltaico. A chi scrive continua a sembrare assai più onesta e condivisibile la posizione di Italia Nostra, che si è rifiutata di partecipare alla “svolta” delle consorelle, e che si dice “per la pianificazione e comunque favorevole al fotovoltaico da installare su: i tetti dei capannoni industriali (circa 700.000 secondo il Wwf); le aree degradate da bonificare, corrispondenti a circa 9.000 kmq; i tetti degli edifici pubblici e privati al di fuori dei centri storici, circa 760 kmq; cui vanno aggiunte tutte le aree di manovra, parcheggio e stoccaggio”.
Ma, al di là delle divergenze sulle (pur rilevantissime) collocazioni di pale e pannelli, quel che sembra mancare drammaticamente a tutte le associazioni è la capacità di mettere il discorso su un altro piano, più radicale e risolutivo. Se anche gli ambientalisti sposano la favola delle rinnovabili come panacea (e cioè, appunto, l’attuale vulgata industrialista), e non provano a spostare assai più in alto l’asticella, abbiamo davvero poche speranze di farcela.
Siamo – si perdoni la similitudine – come un tossico che pur di continuare a bucarsi (cioè a non diminuire il consumo, rinunciando al dogma della crescita) vende, perdendoli per sempre, i gioielli di famiglia (il paesaggio italiano, bene non rinnovabile se devastato oltre un certo limite – limite, come è noto, largamente oltrepassato in molte sue parti). Ora, davvero è utile che il pensiero in teoria più avanzato si sgoli a giustificare, anzi ad esaltare, la svendita di quei gioielli? O non avremmo bisogno che ci dicesse di cambiare radicalmente vita, cioè di smettere di “farci” di crescita? Nel suo ultimo libro (L’imbroglio dello sviluppo sostenibile, Lindau), Maurizio Pallante torna a ricordarci che “in realtà le fonti rinnovabili non sono pulite, perché causano direttamente o indirettamente altre forme, sebbene localizzate e meno gravi, di impatto ambientale” (attraverso alterazioni dei bacini idrici, disboscamenti, cementificazioni e impianti di stoccaggi, necessità di litio e cobalto, con conseguenze sociali e geopolitiche devastanti…), e che “l’unica possibilità di attenuare progressivamente la crisi ecologica e di evitare che raggiunga il punto di non ritorno è costituita dalla riduzione del consumo delle risorse rinnovabili e non rinnovabili, dei consumi energetici, della produzione di sostanze di scarto biodegradabili e non biodegradabili, del consumo di carne nell’alimentazione, del consumo di suolo, della biodiversità, della chimica in agricoltura, della circolazione automobilistica e dei viaggi aerei, dei tassi di natalità, dell’urbanizzazione, della pesca… Per rientrare nei limiti della sostenibilità ambientale occorre decrescere”.
È questo che vorrei sentir dire da chi si è assunto l’enorme responsabilità di parlare, come profeta moderno, a nome dell’ambiente. Perché se non cambiamo davvero modello economico e sociale, sarà stato del tutto vano aver distrutto anche il paesaggio italiano.
Nel maggio 2021, commentando l’improvvida novella dell’articolo 9 della Costituzione, scrivevo su questo giornale: “Ecco la strategia dell’ambientalismo industriale italiano: mettere ambiente contro paesaggio, per continuare a far girare la macchina dei soldi privati a spese del territorio pubblico. Facendosi pure santificare come paladini dell’ambiente”. Una fin troppo facile profezia.