Avevamo creduto che la transizione ecologica (energie rinnovabili, lotta agli sprechi e coibentazione, conservazione degli ecosistemi e carbon tax, insomma tutti gli ingredienti del paniere del Green Deal varato quattro anni fa dalla Commissione europea e implementato dal megafondo Next Generation EU) potesse essere un “driver” per la crescita economica, un volano anti-ciclico capace di riavviare investimenti e occupazione, saggi di profitto e innovazione tecnologica. Ci avevano assicurato che imprese e finanza si sarebbero fatte carico della salvezza del pianeta o, quantomeno, dell’umanità colpita dal collasso climatico. L’internazionale dei miliardari che si ritrova periodicamente a Davos aveva proclamato un Reset Capitlism, “un nuovo tipo di capitalismo sostenibile”. E invece no. Contrordine: hanno rifatto i conti e ci dicono ora che la decarbonizzazione costa troppo. Le casse degli stati sono alle prese con le conseguenze del Covid, con la guerra, con l’inflazione e non rimangono soldi per finanziare la lotta al surriscaldamento climatico e le altre crisi ecologiche in corso. Nemmeno le grandi compagnie multinazionali (vedi la 13ª edizione del rapporto Top 200 redatto dal dal Centro Nuovo Modello di Sviluppo coord@cnms.it) se la sentono di puntare i propri enormi ricavi in investimenti “ancora” troppo poco remunerativi. Meglio spremere dalla Terra fino all’ultima goccia di petrolio. Il capitalismo rimane fossile. Gli “ambiziosi” obiettivi sottoscritti nelle conferenze internazionali dell’Onu (Agenda 2030, Accordo di Parigi, Cop sul clima e la biodiversità) possono attendere, così come i promettenti programmi della UE. In ordine di tempo l’ultima proposta destinata a naufragare sotto i colpi delle destre e delle lobby tossiche sarà la Nature Restauration Law che mirava a preservare il 20 per cento della superficie europea entro il 2030 e altri interventi a favore della biodiversità.
Il primo picconatore della transizione ecologica in Italia è stato proprio il ministro che avrebbe dovuto attuarla. Vi ricorderete quando Roberto Cingolani – ora amministratore delegato della Leonardo, dall’ecologia alle armi in un salto solo! – presagiva “un bagno di sangue” a scapito dei lavoratori se i piani di decarbonizzazione fossero proceduti troppo in fretta?
Il refrain è sempre lo stesso di quello nato con i gilet gialli in Francia: “Voi [ambientalisti sognatori] pensate alla fine del mondo, noi [ceti sociali umili] pensiamo a come arrivare alla fine del mese”. Così è potuto accadere quello che l’economista Emiliano Brancaccio descrive amaramente (“il manifesto” del 29 settembre, Ai capitalisti la transizione green non va più bene): “I capitalisti nemici dell’ambiente stanno pescando consensi in una classe lavoratrice frammentata e già martoriata dall’inflazione (…) insofferente verso i costi della transizione ecologica…”.
Costi insostenibili? Certamente, ma solo se non si vogliono tenere in debito conto almeno due aspetti. Primo, la riconversione degli apparati energetici, industriali, delle infrastrutture civili, delle filiere alimentari, dell’edilizia e della mobilità produrrebbe dei vantaggi economici di medio e lungo periodo in termini di salute, sicurezza idrogeologica, maggiore intensità di lavoro, minore ricorso alle importazioni ecc. Secondo, gli obiettivi della sostenibilità ecologica si raggiungono soprattutto con cambiamenti organizzativi, comportamentali e di mentalità delle istituzioni, delle comunità e delle persone. Cambiamenti che si ottengono modificando norme, regolamenti e leggi senza bisogno di grandi investimenti in denaro. Pensiamo solo all’uso del suolo attraverso il rewilding (rinselvaticamento), l’agroecologia e l’agricoltura contadina; alla rigenerazione urbana riutilizzando a uso civico i beni pubblici non o male utilizzati; alla mobilità dolce e lenta se sostenuta da piani urbanistici intelligenti; alle comunità energetiche; al piccolo commercio di prossimità; alla riterritorializzazione delle filiere produttive, come dimostra il piano industriale elaborato dalle lavoratrici e lavoratori della GKN.
Certo, bisognerebbe mettere mano alle rendite, ai diritti di proprietà (sul suolo, sui mezzi di produzione, sulla ricchezza finanziaria) e al diritto della natura a non essere massacrata. Allora anche l’economia, il lavoro e la cooperazione sociale riacquisterebbero un senso civile ed etico.
Insomma, abbiamo capito che la transizione ecologia non sarà un regalo del capitalismo illuminato di verde, ma un percorso di trasformazione profonda dei modi di produzione, di consumo, di relazioni sociali e di esercizio del potere da parte degli abitanti, delle cittadine e dei cittadini, dei lavoratori e delle lavoratrici. C’è chi lo chiama Giustizia sociale e climatica, chi Ecosocialismo (vedi due interessanti volumi usciti di recente negli Stati Uniti: The Future is Degrowth di Matthias Schmelzer, Aaron Vansintjan, Andrea Vetter, e Half-Earth Socialism di Drew Pendergrass e Troy Vettese). Oppure (solo) una giusta combinazione di alcuni articoli della nostra Costituzione.