Nessun evento può fermare la continua e inesorabile deforestazione dell’Amazzonia. Sembra che il grande polmone verde della terra prosegua a essere bruciato e sventrato. Secondo l’Istituto brasiliano di ricerche spaziali, nell’arco di tempo tra agosto 2019 e marzo 2020 la deforestazione nell’Amazzonia brasiliana è quasi raddoppiata rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. In una recente ricerca, pubblicata su Frontiers in Medicine, gli studiosi rendono noto che la distruzione di foreste e habitat non è un problema da sottovalutare. Sulla scia dell’Asia, anche il Sudamerica è uno dei continenti dove si potrebbe verificare il salto di nuovi virus da animali ad uomo. Se si continuano a spingere questi animali verso aree più antropizzate il rischio di favorire nuove pandemie cresce.
Per molti scienziati e ambientalisti la colpa di quanto sta accadendo sarebbe dovuta alle politiche anti-ambientaliste del presidente Jair Bolsonaro, che avrebbe favorito l’estrazione e la deforestazione in aree che dovevano essere protette. A facilitare questo peggioramento sarebbe anche l’abbassamento delle misure di sorveglianza nei territori amazzonici a causa della chiusura prevista per contenere il Covid-19, lasciando così agire indisturbate le attività illegali.
Se da un lato Bolsonaro respinge le accuse e tenta di frenare il disboscamento con le forze armate, dall’altro la Human Right Watch Brasile sostiene che le reti criminali proseguono il loro operato senza punizioni e minacciando le popolazioni. La risposta del presidente, però, non convince gli ecologisti e pare non sia una soluzione a lungo termine. Secondo quanto ha affermato alla Reuters, Paulo Barreto, ricercatore senior dell’istituto senza fini di lucro Imazon, sembra che negli ultimi mesi siano diminuiti i fondi destinati alla protezione. Inoltre, per la pandemia la sorveglianza è stata ridotta e i taglialegna illegali non si curano del pericolo del virus. In questo momento così difficile, infatti, i popoli indigeni sarebbero sottoposti a una doppia minaccia: le irregolarità nel settore del legno, dell’industria estrattiva e degli accaparratori di terre; e il diffondersi del Coronavirus che potrebbe causare una strage.
In particolare, al momento l’Amazzonia sta soffrendo molto a causa della riconversione dei terreni a suolo agricolo, minerario e per l’allevamento di bestiame, per favorire l’economia del Paese. Si parla di una riduzione del 15% rispetto a quanto era estesa negli anni ‘70 e in Brasile oltre il 19% è scomparso. Nel 2004 si era assistito a un rallentamento, ma negli ultimi anni la tendenza si è invertita. Gli scienziati parlano addirittura di un punto di non ritorno climatico che potrebbe trasformare regioni di questa foresta tropicale in un ecosistema che somiglia a quello di una savana. Se in Amazzonia e in Africa il disboscamento assume dimensioni devastanti, nel resto del mondo il fenomeno sembra rallentare. Secondo i primi dati del Global Forest Resources Assessment 2020 della Fao, si parla di 10 milioni di ettari all’anno convertiti in altri usi dal 2015, in calo rispetto ai 12 milioni di ettari all’anno del quinquennio precedente. A fronte di questi risultati incoraggianti, bisognerebbe porre l’attenzione sulla situazione amazzonica.
A tal proposito il ricercatore forestale Giorgio Vacchiano, dell’Università Statale di Milano, ha dichiarato al quotidiano La Repubblica che sussiste un doppio problema. “Il primo è che la foresta tropicale è un enorme serbatoio di potenziali virus che potrebbero fare il salto, se noi continuiamo a mutarne gli equilibri. Non sappiamo, modificando con la deforestazione le relazioni uomo-animale, cosa potrebbe accadere, con il rischio di nuove e devastanti pandemie. Il secondo è che la pandemia porta a crisi economica e, in Paesi con situazioni di povertà come il Brasile, questa potrebbe ripercuotersi ulteriormente sull’ambiente sfruttando i terreni per tentare di risollevarsi”. Dunque, attuare politiche più rigorose sarebbe un’azione indispensabile per salvaguardare la vita umana ed ecologica.
Veronica Nicotra