Erano 97.372 – in rappresentanza di 198 nazioni – i “delegati”
ufficialmente registrati per partecipare, a Dubai, alla ventottesima COP (Conferenza delle Parti, in attuazione della Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici – UNFCCC – varata a Rio de Janeiro nel 1992): tanti quanti gli abitanti di una media città italiana. E tutti arrivati e ripartiti in aereo (i VIP su aerei privati: fanno bene al clima) e alloggiati e nutriti in alberghi che a Dubai non costano meno di 500 euro a notte: a spese, ovviamente dei rispettivi Stati e aziende di appartenenza. Si tratta di ministri, sottosegretari, diplomatici, funzionari governativi, esperti, tecnici, manager, quadri e consulenti aziendali, giornalisti, spie, amanti, rappresentanti di partiti e di associazioni “embedded” (cioè sostenute da Governi o aziende), lobbisti: 2.500 solo per il settore “oil and gas”, il triplo che all’ultima COP. Visti i costi e le prospettive nulle se non negative dei risultati attesi, molte associazioni non embedded si sono risparmiate il viaggio a Dubai, a differenza di quanto accadeva nelle COP precedenti, dove la loro presenza, per contestare la condotta dei rispettivi governi, era massiccia. A Dubai, d’altronde, le contestazioni non sono gradite.
Si è trattato della ventottesima conferenza convocata per affrontare la crisi climatica. In tutte le ventisette conferenze precedenti, con una mobilitazione di delegati da tutto il mondo di consistenza analoga, questi erano riusciti a discutere del clima per giorni e giorni (in media 10 e più per COP) senza mai nemmeno nominare – era un tabù – i combustibili fossili. Cioè, ciò che fin dagli anni ’50 del secolo scorso – ma anche prima – gli scienziati del clima avevano indicato come principale causa del progressivo riscaldamento del pianeta Terra, avvertendo che proseguire nel loro consumo rappresentava una minaccia mortale per il futuro della vita di tutto il genere umano. Detto in altre parole, tutto quel movimento di uomini, donne, denaro e proclami, per farli incontrare una volta all’anno a discutere di clima, era finalizzato a concentrare l’attenzione dell’opinione pubblica – e non solo quella occidentale; nei paesi del Sud del mondo, i più colpiti dalla crisi climatica, l’attenzione per il problema è ben maggiore – sul dito (lo spettacolo delle COP) invece che sulla luna (i combustibili fossili). Evitando accuratamente di affrontare l’oggetto di cui avrebbero dovuto occuparsi. Adesso, al ventottesimo giro, i combustibili fossili sono stati finalmente nominati nel comunicato finale detto, non so perché, Stocktake: art. 28 D, “transition away from fossil fuels”, cioè abbandonare (?) i combustibili fossili, senza però indicare le tappe di questo abbandono, ma solo l’obiettivo finale dello zero net emissions al 2050, dove, come vedremo, net significa continuare a usarli se si riesce a compensarne o nasconderne – sottoterra – le emissioni. Tutto qui? Sì; ma la cosa è stata presentata come una svolta “storica”.
Sembra una barzelletta. Ma nella nostra epoca non c’è limite al grottesco. Infatti a ospitare COP 28 è stata designata la città di Dubai, capitale degli Emirati Arabi Uniti, uno dei principali produttori e fornitori mondiali di petrolio e gas; e a presiederla è stato nominato il principe Sultan Al Jaber, Ceo, cioè amministratore delegato, della Adnoc, la compagnia di Stato che gestisce le risorse fossili del paese. Come dire portare l’Avis in casa di Dracula. E per non farsi mancare niente, a ospitare la prossima COP (la 29) è già stato indicato l’Azerbaigian, un altro Stato che vive di gas e petrolio. Sono decisioni prese dagli Stati che controllano l’ONU e c’è da chiedersi se in queste scelte abbia prevalso il cinismo o l’insipienza delle loro classi di governo; in ogni caso, ha prevalso la loro miseria. Siamo tutti – noi, la popolazione mondiale – in brutte mani.
E infatti la COP 28 è stata aperta da un intervento di Al Jaber secondo cui la riduzione delle emissioni di gas di serra per contenere la crisi climatica non ha basi scientifiche ed è stata chiusa, prima di approvare per acclamazione lo Stocktake, da una lettera del presidente dell’Opec+ (il cartello dei principali produttori di petrolio del mondo) che diffidava i convenuti dal metterei in discussione l’utilizzo dei combustibili fossili, posizioni poi solo in parte ammorbidite nello Stocktake. Ma già che erano là a parlare di clima, i grandi produttori e utilizzatori di fossili ne hanno approfittato, a latere della conferenza, per fare accordi e siglare contratti: insomma, a trasformare la COP in una fiera-mercato del fossile.
I risultati si vedono: a fronte del riferimento “storico” ai fossil fuels lo Stocktake ha piantato dei paletti per renderlo del tutto inefficace, promuovendo, accanto all’obiettivo di triplicare le rinnovabili entro il 2030 (ma a molti paesi mancano i mezzi per farlo e la conferenza è stata parecchio attenta a non metterne di sostanziali a disposizione dei paesi più poveri o più colpiti dalla crisi climatica), alcune soluzioni che procrastinano a azzerano l’uscita dai fossili: il gas naturale, rinominato “combustibile di transizione”, con tutto l’apparato di impianti (tubi, metaniere, gassificatori e degassificatori, impianti di termogenerazione, ecc.) che richiedono decenni per essere ammortizzati; il nucleare (solo il ministro italiano Tajani ha avuto il coraggio di nominare la fusione, come se l’avesse già in tasca), in un momento in cui tutti parlano di mini-nucleare (impianti “piccoli” e diffusi, che moltiplicano rischi, costi e militarizzazione del territorio). Ma l’unica impresa (Usa) arrivata a rendere operativa la loro costruzione è appena fallita. Altri impianti sono in costruzione da decenni, mentre quelli esistenti sono sempre più vecchi e insicuri, moltiplicandone rischi e costi. D’altronde tutti ormai sanno che il nucleare costa già ora più del gas e delle rinnovabili; costerà sempre di più e ha, e avrà sempre di più, bisogno di essere sostenuto, anche economicamente, dagli Stati. E, infine il CCS (Cattura e sequestro del carbonio), che consiste nel prelevare la CO2 all’uscita dagli impianti o direttamente in cielo per comprimerla e iniettarla sottoterra o sotto i mari, in giacimenti di petrolio e gas esauriti, da cui poi potrebbe fuoriuscire quando meno te lo aspetti. D’altronde anche questa tecnologia funziona poco, costa carissima: il più grande impianto di CCS del mondo, della Chevron in Australia, è appena fallito anche lui. Ma sono tutte proposte che hanno il solo scopo di rendere meno urgente il passaggio alle rinnovabili, legittimando la prosecuzione del ricorso ai fossili (carbone compreso, il più pestilenziale, ma anche il più utilizzato).
Così, se andiamo a guardare dietro le quinte delle risoluzioni storiche di questa COP, nei programmi di investimento dei principali produttori e utilizzatori di combustibili fossili, scopriamo che, come sostiene lo Stockolm Environment Institute: “I governi hanno ancora in programma di produrre più del doppio della quantità di combustibili fossili nel 2030 rispetto a quello che sarebbe compatibile con la limitazione del riscaldamento climatico a 1,5°C”. Il fatto è, come scrive Mario Tozzi su La Stampa del 13 dicembre, che “nessuno dei potenti del pianeta Terra riesce anche solo a immaginare un mondo senza combustibili fossili e se tu non lo immagini ora, quel mondo non sarà mai possibile”. Dunque, immaginarlo, anche nei suoi risvolti pratici, paese per paese, città per città, strada per strada, per poi imporlo ai nostri governanti, tocca a noi.