Lo sconvolgimento che a livello globale il nuovo coronavirus ha comportato ci impone non solo di riflettere, ma di interrogarci sulle possibili soluzioni per uscire da questa crisi planetaria. Fin dall’inizio si è scritto che più che “pandemia” si doveva parlare di “sindemia”, ovvero dell’interazione nefasta di molteplici fattori (sanitari, sociali, ambientali, economici), tutti comunque riconducibili al rapporto predatorio ed aggressivo dell’uomo col resto del Pianeta.
Già in tempi non sospetti autorevoli voci si erano levate denunciando il pericolo sempre più incombente di nuove pandemie e la necessità che il genere umano si impegnasse molto di più “per conservare la natura, preservare i servizi ecosistemici e la biodiversità, comprendendo e mitigando le attività che portano all’emergenza delle malattie”. Di fatto numerosi sono ormai gli studi che attestano come la maggior incidenza e gravità della Covid 19 si registri nelle aree maggiormente inquinate, quasi che da esse si levasse un ulteriore grido d’allarme per farci cambiare rotta. Un ampio studio condotto negli Stati Uniti ha dimostrato che per ogni aumento di 1 mcg/m3 di PM2,5, si ha un incremento di mortalità da Covid-19 del più 11 per cento, dato che, rapportato all’Europa, si traduce in un incremento pari al 19 per cento, e che è ancor più elevato per la Pianura Padana, area fra le più inquinate del continente europeo, e in cui si sono registrate le più elevate mortalità da Covid-19.
Ma non è solo la qualità dell’aria a condizionare la gravità della pandemia: da una ricerca dell’Università di Firenze che ha messo in relazione il numero di casi di Coronavirus con i modelli di agricoltura presenti nelle varie zone del Paese è emerso che nelle aree di agricoltura intensiva si registrano 134 casi ogni 100 km2, rispetto ai 49 casi delle aree non intensive, differenze che si confermano anche considerando i dati demografici.
Ma invece di imparare la lezione che questa crisi epocale ci sta dando ancora una volta sprechiamo l’occasione di ridurre drasticamente l’inquinamento e “fare pace col pianeta” e di fatto si propone come unica soluzione la vaccinazione di massa, addirittura estendendola a giovani e bambini, possibilità questa su cui autorevoli voci contrarie proprio in questi giorni si sono levate.
A questo proposito è stato lanciato un appello dalla Rete Sostenibilità e Salute con cui si richiede la moratoria della vaccinazione anti Covid-19 nei bambini e già sottoscritto da circa un migliaio fra medici e operatori sanitari (all’appello si può continuare ad aderire seguendo le istruzioni che in esso compaiono e l’elenco dei sottoscrittori sarà via via aggiornato).
I bambini sono fortunatamente risparmiati da questa pandemia, non hanno un ruolo rilevante nella trasmissione del SARS-CoV-2, ma rischiano di essere le sue più grandi vittime. I vaccini in uso, infatti, riducono ma non azzerano la trasmissione dell’infezione (con alcune varianti in Israele è stato documentato persino l’opposto), hanno durata sconosciuta ed efficacia ridotta su alcune delle varianti sinora emerse, a oggi non è stata stabilita la necessità e la frequenza di dosi di richiamo e soprattutto ancora troppo poco sappiamo degli esiti a lungo termine di questi trattamenti in organismi che hanno tutta la vita davanti. Perché una sollecitudine analoga a quella che si mostra nel voler vaccinare i bambini per una malattia che fortunatamente non sviluppano non la si dimostra anche nel difenderli dai rischi ambientali e dai comportamenti a rischio?
Confrontiamo qualche numero: dall’inizio della pandemia, oltre sedici mesi fa, fra 0 e 19 anni sono deceduti per Covid-19 26 soggetti, di cui la maggior parte già affetti da gravi patologie. D’altro canto in Italia ogni anno da 0 a 19 si ammalano di cancro oltre 2.400 soggetti e 356 ne muoiono, per non parlare dell’autismo (all’origine del quale ci sono anche fattori ambientali) che riguarda ormai un bambino su 77 fra 7 e 9 anni.
Ma al di là del “celebrare” queste situazioni dedicando ad esse apposite giornate (15 febbraio per cancro infantile e 2 aprile per l’autismo), cosa si fa di concreto? Direi purtroppo ben poco, eppure molto già sappiamo e molte azioni concrete potremmo mettere in campo per la prevenzione primaria sia dei tumori infantili che dell’autismo. Direi che mai, come in questo caso, mi sembra si usino due pesi e due misure, eppure l’imperativo ippocratico “primum non nocere” è un principio basilare per ogni medico e a maggior ragione dovrebbero esserlo anche per ogni provvedimento di sanità pubblica, specie se riguarda ciò che più importante ogni società dovrebbe avere a cuore: i propri bambini.
Più che mai nei confronti dell’infanzia dovremmo impegnarci invece per farli vivere in un ambiente non inquinato, respirare un’aria pulita, promuovendo un’alimentazione sana (ricca di verdura e frutta fresca e secca oleosa, cereali integrali, legumi, e povera di carni rosse e lavorate, bibite zuccherate, cereali raffinati…) e senza residui, nonché di una salutare attività fisica, fattori tutti fondamentali nel preservare le fisiologiche capacità difensive dell’organismo e contrastare non solo contro le infezioni, ma anche il carico complessivo di malattie croniche da cui sempre più sono afflitti.
Patrizia Gentilini - medico oncologo ed ematologo, membro di Isde