Glasgow - Transizione energetica, trasporti, uguaglianza di genere, finanza. A Cop26 si parla di tutto, ma nella kermesse di Glasgow all’appello mancano gli oceani. Esiguo il numero dei panel nell’agenda della convention scozzese dedicata all’ambiente. Proprio quando i grandi leader sono riuniti, attaccano le ong, manca una giornata tematica, che avrebbe avuto il potere di catalizzare l’attenzione di media e negoziatori. E dire che l’acqua ricopre tre quarti della superficie terrestre.
Innalzamento degli oceani, acidificazione, perdita di biodiversità, pesca industriale senza limiti: se quella di Madrid doveva essere la Blue Cop, quella scozzese compie un passo indietro. “Probabilmente si tratta di un fattore culturale, siamo animali terrestri – prova a spiegare a Wired Francesca Santoro, specialista di programma dell’Intergovernmental Oceanographic Commission dell’Unesco.
Santoro è promotrice italiana del Decennio del Mare, un programma Onu per sostenere la ricerca oceanografica a livello globale. Argomenti, prosegue l’esperta, difficili da comunicare fuori dal perimetro degli specialisti, temi che avrebbero meritato ben altra considerazione e il focus, senza precedenti, di questi giorni.
"Devo dire che, negli ultimi anni, si è intravisto qualche segnale positivo, ma raramente a livello di negoziati. Anche perché – sottolinea la ricercatrice – si tratta di questioni che stanno a cuore soprattutto alle piccole isole”, legate alle acque da un rapporto atavico e vitale. Le grandi potenze, dal canto loro, hanno nicchiato.
C'entra, come spesso accade, la geopolitica. “In mare i confini sono molto labili, perché si tratta di linee immaginarie che possono essere facilmente superate”. Definire limiti e linee rosse significa intaccare prassi consolidate, toccare settori industriali su cui si basano economie a volte di sussistenza, quando non proprio compromettere interessi strategici dei governi. La tutela sta diventando una leva negoziale, con i piccoli Stati che promettono impegno a fronte di contropartite economiche. “Va rilevato che sono minuscoli ma numerosi” nota Santoro. Quindi possono contare in un consesso internazionale, se raccolti attorno a posizioni condivise.
Le Nazioni Unite hanno mostrato maggiore attenzione al tema, nominando un abitante di Fiji, il diplomatico Peter Thomson, inviato speciale per l’Oceano e indicendo, nel 2017, per la prima volta una conferenza ad hoc (prossima edizione nel 2022, dal 27 giugno al 2 luglio). La stessa organizzazione ha più volte incentivato la creazione di una blue economy in grado di unire ragioni economiche e tutela degli oceani. Ma la vetrina di Glasgow, con i politici riuniti in assise, la pressione di media e attivisti e, di contro, l'assenza di una discussione ampia, è senza dubbio un’occasione mancata.
Non è solo un problema di agenda che trabocca. “Tra il 50% e l’80% dell’ossigeno che respiriamo è prodotto dagli oceani - osserva Santoro - Il punto è che di questo si sa davvero poco. Nel G20 si è parlato di piantare mille miliardi di alberi per decarbonizzare. Ottima cosa. Ma le piante marine sono molto più efficienti da questo punto di vista". La capacità di alcune specie di assorbire CO2 e trattenerla ha un nome, Blue Carbon, e potrebbe diventare una delle nuove frontiere nella lotta contro il cambiamento climatico. Ma la questione ambientale è complessa, e le risposte dipendono in tutto e per tutti dai dati e dalla loro affidabilità. Che in questo caso va costruita.
Bloomberg riporta di una partnership multimilionaria tra il gruppo assicurativo Conve e la Blue Marine Foundation che permetterà ai ricercatori di avere finanziamenti per cinque anni: obiettivo, creare un database ad accesso libero per comprendere quanto carbonio possono immagazzinare i fondali marini. L'Ufficio Nazionale delle Statistiche britannico ha provato a monetizzare, qualche mese fa, il valore di quelli nazionali: i “natural capital assets” di Londra varrebbero 211 miliardi di sterline, circa 246 miliardi euro. Ora le nuove ricerche potrebbero raffinare gli strumenti per dare un valore all'ambiente, un'area di studio che sta muovendo i primi passi.
A questo punto è lecito chiedersi se è possibile rigenerare o favorire la crescita dell’ecosistema marino? “La risposta è senz'altro positiva - chiosa Santoro - L’Unesco sta lavorando a una piattaforma che monitora i comportamenti degli iscritti e propone di compensarli con azioni dirette a ricostituire l’ecosistema marino. Si chiama Save the wave, e vedrà la luce tra la fine di dicembre e l’inizio di gennaio. Consentirà agli utenti di partecipare a un progetto pilota di ripiantumazione della posidonia oceanica in Sicilia, a Palermo”.
Non solo. Se una pianificazione accorta è condizione necessaria per non sprecare opportunità, è necessario che il denaro arrivi davvero lì dove ce n'è bisogno. Se l'invito recente di Boris Johnson, Mario Draghi e altri leader a coinvolgere il risparmio privato sarà l'anticamera di un impegno non solo istituzionale, potrebbe arrivare un flusso di denaro senza precedenti. Così, per monitorare i bilanci dei progetti, nei piani dell’Intergovernmental Oceanographic Commission di domani arriverà la blockchain. I flussi di denaro saranno seguiti dall’inizio alla fine tramite un registro condiviso e immodificabile, per garantire che il processo si svolga in maniera trasparente. Non da subito, però: anche in questo caso, si parla del 2022. Il tema è dibattuto: la blockchain inquina, ammette lo United Nations Climate Change Framework, che ha organizzato Cop26, e parecchio. Ma, prosegue l'agenzia, può essere utile anche nelle transazioni di rinnovabili e in quelle legate ai crediti di carbonio, una delle strategie su cui si punta per ridurre le emissioni. Costi e benefici che devono essere ponderati. Come sempre quando ci si confronta con la realtà, e i suoi compromessi.