E’ sbagliato prospettare la transizione ecologica come mera sostituzione di fonti di energia rinnovabile a quelle fossili in modo che le nostre vite possano continuare a svolgersi come prima. Ci sono molti altri fattori che incidono sul riscaldamento globale. Innanzitutto, l’agricoltura industriale che insterilisce il suolo, impedendogli di assorbire carbonio e che emette gas che contribuiscono al riscaldamento della Terra. La maggior parte dei suoli coltivati e delle derrate prodotte è destinata all’alimentazione animale, alla produzione di carne e latticini, che per questo sono fra le cause maggiori dei cambiamenti climatici. Anche il riscaldamento dei mari e degli oceani riduce la loro capacità di assorbire carbonio. Sono processi che continueranno ad aumentare il riscaldamento globale per decenni anche se l’emissione di CO2 cessasse domani; il che, ovviamente non può succedere: perché, anche volendo, la costruzione degli impianti per la generazione di energia rinnovabile richiede tempo, ma soprattutto perché la necessità di lasciare gli idrocarburi sotto terra non è ancora entrata nella testa della maggior parte della gente, e soprattutto in quella di coloro che con i fossili fanno profitti o pensano che abbandonarli minerebbe il loro potere. Poi, lo scioglimento del permafrost emette metano e la scomparsa dei ghiacciai e delle calotte polari riduce l’albedo, aumentando l’assorbimento del calore prodotto dai raggi solari. Sono processi che si alimentano da soli, sospingendo il riscaldamentoglobale verso l’irreversibilità.
Questi processi obbligheranno comunque tutti a cambiare abitudini: a cercare di vivere con meno perché la terra assolata, desertificata e attraversata da uragani, alluvioni e incendi produrrà meno; ma anche l’industria, il commercio e il turismo, sconvolti da disastri ambientali sempre più frequenti, non saranno più quelli che conosciamo. Le nostre vite saranno comunque sempre più difficili e ai nostri figli e nipoti andrà ancora peggio. Possiamo lasciare che la “natura”, sconvolta, faccia il suo corso, peggiorando progressivamente la vita di tutti, a partire da quella di chi ha meno, fino alla completa estinzione del genere umano; oppure ridurre ovunque in modo programmato il consumo di madre Terra e le diseguaglianze che permettono a pochi di continuare ad arricchirsi e a vivere nel lusso a spese dei più, della loro miseria e, sempre più spesso, della loro morte. Bisogna adoperarsi non solo per bloccare al più presto il ricorso ai fossili (mitigazione), ma anche prepararsi alle condizioni più difficili in cui ci si verrà a trovare (adattamento). Ma a imboccare una strada del genere non saranno certo le imprese, grandi e piccole né i Governi. L’ecologia “dall’alto” è sempre menzogna. Ma nemmeno si può pensare a un cambio di rotta lasciando che ognuno si arrangi “come può”.
Bisogna creare l’ambito in cui possa svolgersi una vera transizione, una conversione ecologica consapevole, volontaria e desiderabile: certo, affidata all’urgenza di evitare il peggio; ma soprattutto, a una svolta culturale irrinunciabile. Non c’è più niente da sostituire: la cultura, intesa come capacità di confrontarsi con i problemi della propria epoca, è morta, sloggiata dal sequestro dell’informazione da parte dei big della rete (la Grande Cecità ha ormai investito tutti i settori); ma soprattutto azzerata dalla perdita del confronto fisico, dell’incontro faccia a faccia, dello sguardo rivolto non solo alle persone, ma anche a tutta la vita che ci circonda.
Per questo l’ambito di questa transizione non può che essere la ricostituzione della comunità, di molte comunità, fondate su relazioni il più possibile dirette tra le persone e tra persone e cose: “naturali” e artificiali, belle o brutte, utili o dannose (dobbiamo imparare a curarci anche delle cose brutte e dannose per trasformarle, o cancellarle con cose belle e utili). Per portare avanti la transizione le comunità dovranno riunirsi – perseguendo ciascuna la massimo autonomia – in quegli aggregati di abitanti che sono le città, dove ormai si ritrova più della metà della popolazione mondiale. Il termine città indica un territorio, il suo assetto urbanistico, i suoi rapporti con la vegetazione e gli animali dentro e fuori dell’abitato, il suo clima e i suoi collegamenti (la ville); ma soprattutto le pratiche e la cultura condivise da una parte significativa dei suoi abitanti, la cité (Richard Sennet): due risvolti di una stessa realtà indissolubilmente intrecciati e reciprocamente condizionati. Nel processo di transizione questa cultura non può avere una configurazione rigida e identitaria; deve essere aperta e flessibile: un cammino in fieri che coinvolge tutti coloro che vedono nella ricostituzione di una o tante comunità, cioè di relazioni il più possibile dirette tra le persone e con il proprio ambiente, un passaggio obbligato della conversione ecologica. In questa luce la città non è una realtà statica e armonica; è conflittuale e vede coloro che intendono partecipare alla transizione contrapposti a coloro che ancora traggono vantaggi dalla situazione esistente; questi, forti delle risorse che controllano; i primi, sostenuti dalla forza delle loro coalizioni, ma anche dall’evidenza dell’aggravarsi della crisi climatica e delle sue conseguenze. Sarà un processo mai interamente concluso di riappropriazione di spazi, strutture, servizi, beni comuni, poteri decisionali: “Riprendiamoci la città”. Cinquant’anni fa, in un orizzonte ancora non dominato dall’imminenza di una catastrofe ecologica, questa parola d’ordine, trasformata in programma, era stata lanciata in un’arena sociale, territoriale, generazionale e di genere differenziata, ma sotto la spinta di una classe operaia allora in lotta quasi permanente come sbocco necessario di un conflitto che voleva superare l’impianto meramente operaista delle principali lotte in corso. Ma in quegli stessi anni, del tutto indipendentemente, ma in una prospettiva analoga, il sociologo francese Henri Lefebvre pubblicava un libro sul Diritto alla città, palesemente influenzato dalle teorizzazioni situazioniste sulla “deriva urbana” (la presa di coscienza dell’influenza degli assetti urbani sulla psicologia e la cultura di una popolazione). Temi poi ripresi nel 2006 dal geografo inglese David Harvey, che sono oggi al centro di un ripensamento radicale del ruolo giocato nei processi trasformativi dal territorio, dall’iniziativa dal basso, dalla partecipazione al conflitto, dalle forme non istituzionali di democrazia di base.
Ma quali possono essere, oggi, i tratti fondamentali di una transizione ecologica affidata alla costruzione e all’iniziativa di una rete di comunità? Non sarà un processo né pacifico, né graduale, né uniforme. Sarà differente tra città e territori che avranno mezzi, capacità e volontà di attrezzarsi per un adattamento al caos climatico e ambientale e quelli che resteranno indietro. Procederà per salti e arretramenti, come quello che tutti i Governi del mondo stanno promuovendo con una crescente militarizzazione sospinta sia dalle guerre in corso sia con la “difesa dei confini” da quella che chiamano invasione, oggi di centinaia di migliaia, domani di milioni di profughi e immigrati. Con un armamento che non si può certo pensare di poter combattere e sconfiggere sul campo, ma che si può solo cercare di destrutturare, di scomporre e di rendere inoffensiva prospettando i vantaggi della pace.
Quel processo deve avere un centro e un punto di riferimento; la sua sede privilegiata è una scuola aperta, che permetta agli allievi di tutte le età di uscire e prendere contatto con le realtà sociali, produttive e istituzionali del territorio e con le sue risorse naturali e storiche, con particolare attenzione per la loro bellezza. Ma aperta anche – per rivoluzionarla, a partire dai programmi e dalle metodologie didattiche – a tutti coloro che intorno a quella scuola vivono, facendo degli edifici scolastici e delle loro pertinenze altrettanti centri di formazione per sperimentare energie rinnovabili, efficienza energetica, nuove tecniche di costruzione, coltivazioni biologiche, recupero e riuso dei beni, educazione degli adulti. Ma anche aperta al suo uso sociale, per una musica e un teatro praticato da tutti, per incontri pubblici, esposizioni, attività sportive, riunioni politiche e culturali.
Si possono trovare soluzioni “comunitarie alle principali questioni della transizione: comunità energetiche, agricoltura di prossimità, biologica, di piccole imprese ricostituite anche con un ritorno alla terra, tecnicamente attrezzato, di nuove leve di agricoltori e con l’inserimento in condizioni di parità dei molti migranti oggi sfruttati in modo illegale, o tenuti forzosamente inattivi. Un’alimentazione in stretto rapporto con la produzione, sul modello dei GAS, e una drastica riduzione delle proteine animali che elimini l’orrore degli allevamenti intensivi. Una mobilità urbana ridimensionata dalla “città dei 15 minuti”, dalla bicicletta, dal coworking e dai servizi on line, dalla promozione della mobilità flessibile: tutte cose da mettere in mano a comunità di quartiere. All’obsolescenza programmata che induce una continua produzione di rifiuti per far spazio ai nuovi acquisti, occorre contrapporre sempre più riuso, riparazione, upgrading e prodotti di seconda mano – tutte attività che possono alimentare la crescita di una comunità, mentre il riciclo degli scarti è destinato a diventerà una fonte di approvvigionamento di materie “prime”. Inoltre, i rischi, i costi e gli ostacoli crescenti che il deterioramento del clima imporrà agli spostamenti di lungo raggio, sia per fini economici che di svago, riducendo drasticamente l’economia dei grandi eventi politici, culturali, sportivi, musicali, religiosi, costringeranno le città ad abbandonare il “modello di sviluppo” fondato quasi esclusivamente sull’attrattività costringendola a contare maggiormente sulle risorse locali.
Occorre poi promuovere il coordinamento tra città e territori sostituendola al “libero gioco del mercato” negoziazioni dirette tese a valorizzarne la complementarietà, soprattutto nella ricostituzione delle filiere produttive sempre più spesso soggette a rotture e andrà abbandonato il mito di una democrazia fondata sull’autogestione d’impresa, che rischia di mettere i lavoratori in concorrenza gli uni con gli altri, tra un’impresa e l’altra. Il conflitto, a partire dalle mobilitazioni nelle imprese in crisi (è l’esempio della Gkn), dovrà puntare invece a trasferirne il governo su strutture miste, che non escludano a priori piccoli proprietari e istituzioni locali, né una parte del management, ma li subordino alle organizzazioni di base dei lavoratori, degli utenti e dei consumatori, o di difesa e sostegno della salute, dell’ambiente, della ricerca scientifica. In questa forma una democrazia partecipativa non sarà per molto tempo incompatibile con quella rappresentativa, ormai sempre più impotente, ma destinata a venir esautorata; proprio come a suo tempo i governi costituzionali avevano espropriato i poteri della nobiltà, pur lasciandone in vita lussi e sprechi.
E’ troppo presto per parlare di queste cose? No. Siamo già molto in ritardo.
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