I nodi stanno arrivando al pettine. Se dovessero aver successo le tre riforme promosse dall’attuale maggioranza (autonomia differenziata, premierato, separazione delle carriere) la storia del lungo regresso italiano verrebbe a compimento, entreremmo in un’altra democrazia (meno solidale, più autoritaria, meno garantita nei diritti). Non è detto che ciò avverrà, ma per evitare quest’esito preannunciato è necessario reagire, capire anzitutto come s’è giunti sin qui, quali errori hanno aperto la strada al peggio, per porvi rimedio sin che si è in tempo.
SI TRATTA, IN SOSTANZA, di fare i conti con il proprio passato. A questo scopo è dedicato un utile e agile volume che ripercorre la storia politica e costituzionale italiana con spirito critico alla ricerca delle ragioni che hanno portato alla «sfigurazione» della nostra Costituzione democratica ed antifascista (Pancho Pardi, Il Parlamento contro la Costituzione. Come viene sfigurata la Carta, DeriveApprodi, pp. 110, euro 12).
A ripercorrere gli avvenimenti ci si avvede di come una linea di continuità abbia contrassegnato il «revisionismo costituzionale»: dalla prima Commissione Bicamerale presieduta dal deputato liberale Aldo Bozzi nel 1983 alle attuali proposte del Governo Meloni. Emerge con chiarezza il progressivo abbandono dell’idea che aveva caratterizzato il primo trentennio della Repubblica, contrassegnato dalla difficile ma necessaria attuazione della Costituzione, e il parallelo passaggio alla perversa idea che la Costituzione rappresenti un ostacolo per il Governo e per l’attuazione delle sue politiche. Si è così passati dalla «democrazia costituzionale» alla «democrazia governativa».
Al di là di ogni giudizio di merito sulle singole riforme che si sono succedute o sui tentativi di stravolgimento del testo della Costituzione (compresi quelli fortunatamente falliti) quel che più importa rilevare è che in tal modo si è messo in discussione quel che rappresenta il carattere proprio e più profondo del costituzionalismo moderno, che è – vale la pena ricordarlo – la scienza di legittimazione e limitazione del potere, non invece lo strumento del governo per poter esercitare senza più ostacoli il proprio dominio.
SE SI RIPERCORRE LA STORIA del revisionismo costituzionale che si è andato affermando dagli anni ’80 in poi ci si avvede del cumulo di insipienza, si rimane impressionati per la miopia che ha segnato tutte le forze politiche, quelle progressiste incluse. Il confronto con il testo originario e la consapevolezza dei nostri padri costituenti è impietosa. Anche riforme condivisibili, almeno in via di principio, com’è quella del giusto processo, hanno prodotto un guazzabuglio, introducendo regole superflue o parole vuote, che hanno finito per lasciare libero corso a processi sempre meno garantisti, poco attenti alle ragioni dei deboli, non ponendo argine alla protervia del potere e dei potenti.
PER NON PARLARE della vergogna che si prova ricordando chi fu a imporre con successo la peggiore delle riforme costituzionali possibili, quella del Titolo V. Un centro-sinistra confuso e in preda al panico per l’affermarsi della Lega e delle pulsioni secessioniste, alla vigilia delle elezioni politiche, nell’illusorio tentativo di vincerle opera una serie di strappi: approva a maggioranza risicata (anziché come era sempre avvenuto con l’accordo dell’opposizione) una riforma sconclusionata che ha dato inizio a una perenne conflittualità tra Stato e Regioni.
Ciò ha richiesto un intervento massiccio della Corte costituzionale per limitare i danni, che ha introdotto disposizioni capestro e tanto vaghe da risultare vere e proprie mine vaganti, che ora stanno per esplodere (l’autonomia differenziata, nella sua odierna interpretazione eversiva). Rappresentando questa riforma il precedente nefasto per tutte le successive revisioni rimesse alle sole maggioranze politiche pro tempore governate (Berlusconi prima, Renzi poi).
POTREMMO CONTINUARE elencando un interminabile cahiers de doléances del nostrano riformismo, costituzionale, ma anche di legislazione ordinaria (basti ricordare con orrore le vicende perverse delle leggi elettorali, che ci hanno condotto a sistemi dichiarati incostituzionali, che hanno favorito i processi di estraneazione dei cittadini e di assenteismo elettorale, che hanno rimesso alle segreterie dei partiti la scelta degli eletti), ma si possono concludere queste brevi notazioni rilevando quel che sembra un limite, se non della trattazione, quantomeno del titolo o dell’indicazione che viene fornita, che pare riduttiva.
Si scrive che è il Parlamento il maggior colpevole, che non sarebbe riuscito tramite le riforme ad attuare la Costituzione ed anzi si è auto-esautorato: «Il Parlamento contro la Costituzione». Perché solo il Parlamento? Le responsabilità sono assai più diffuse: dai partiti ai cittadini. È la cultura di un Paese che viene in gioco, nelle sue diverse articolazioni. Il deperimento della democrazia costituzionale è il frutto di un concorso di colpe che coinvolte tutti e tre i lati del triangolo della rappresentanza: il rappresentante (e i suoi organi quali sono il Parlamento e le altre istituzioni del pluralismo), il rappresentato (un popolo distratto e incattivito) e gli strumenti della rappresentanza (i partiti e le forze sociali conflittuali).
Sì, è vero il Parlamento si sta suicidando, ma Kelsen ci ricordava che esso è lo specchio della intera democrazia. Se non vogliamo che essa cambi il suo volto in una maschera sfigurata dobbiamo rivolgerci a tutti – a iniziare da noi – e tornare a pensare a una vitale democrazia costituzionale. Nessuno è senza peccato.