L’autonomia differenziata, lo ricordiamo ancora, è una “autonomia delle diseguaglianze”. Contrasta con i principi costituzionali di solidarietà ed uguaglianza; frantuma il legame sociale e l’unità della Repubblica; veicola lo smantellamento dello stato sociale; favorisce una egocentrica competitività e processi di privatizzazione; produce deregolamentazione e caos normativo.
È una attuazione della Costituzione incostituzionale: la determinazione dei LEP corredata dalla clausola di invarianza finanziaria e dall’ossessione per l’equilibrio di bilancio (fermo restando che la Costituzione riconosce diritti, non il loro mero livello essenziale) svuota la garanzia dei diritti sociali su base universale e pubblica; la frammentazione dei rapporti di lavoro compie un passo ulteriore nella loro medievalizzazione e nella distanza da una Costituzione fondata sul lavoro come strumento di dignità ed emancipazione; la procedura prevista per le intese determina l’ennesimo esautoramento degli organi rappresentativi (Parlamento e Consigli regionali) in favore dei vertici degli esecutivi.
È una autonomia contro la Costituzione, che invece impegna la Repubblica, in tutte le sue articolazioni, in modo interdipendente e coordinato, ad assicurare le precondizioni materiali e sociali che consentono la liberazione e l’uguaglianza sostanziale necessarie per l’esercizio di una effettiva libertà, di ciascuno e di tutti. La legge Calderoli coniuga un procedimento di stipula delle intese all’insegna della verticalizzazione del potere con una devoluzione che nella sostanza acuisce diseguaglianze territoriali e sociali. Sia chiaro: è una autonomia che fa male anche al Nord, colpisce trasversalmente i più deboli.
Non è una mera questione formale di riparto delle competenze fra Stato e Regioni ma coinvolge la materialità delle esistenze dei cittadini, di tutti i cittadini.
È tutta la legge, dunque, che occorre rifiutare: per le sue disposizioni e per la ratio che sottende. La via è l’abrogazione totale.
Si sostiene: i quesiti parziali costituiscono un paracadute a fronte dei rischi di inammissibilità. Primo: non necessariamente. Un quesito parziale, da un lato, non è scevro dai rischi di inammissibilità; dall’altro, potrebbe aprire una comoda via d’uscita alla Corte costituzionale nel negare l’ammissibilità del quesito totale (dunque, controproducente).
Secondo: chiedere un’abrogazione parziale – e debole, come il quesito che le Regioni stanno approvando – sottintende un riconoscimento di quanto non oggetto di abrogazione e, anche nel caso l’esito della consultazione conduca ad una abrogazione, innesta logiche riformiste e non intransigentemente oppositive (esito, peraltro, che forse a qualcuno non dispiace). Proporre tanti quesiti parziali che producano l’effetto di un’abrogazione totale? I pericoli di cui sopra restano e ad essi si aggiungono difficoltà pratiche e comunicative nel raggiungere risultati abrogativi pari al quesito netto.
Terzo. I danni e i fallimenti nell’inseguire politiche di destra e nell’assumere l’agenda neoliberista sono sotto i nostri occhi. È il momento di una inversione di rotta, non di una semplice curvatura. Di una resistenza e non di una resilienza. È ora di un no chiaro e netto, che in quanto tale esprime una visione del mondo altra; e un’alternativa esiste: attuare effettivamente la Costituzione e il suo progetto di trasformazione della società.
Abrogare la legge Calderoli si può. Ci sono, certo, dei rischi di inammissibilità, anche considerando che cambieranno gli equilibri nella Corte costituzionale, ma questo deve essere ragione per costruire solide argomentazioni a sostegno dell’ammissibilità: lo spazio c’è tutto. Avremo modo di parlarne, ma sin d’ora è bene chiarire che non si ragiona di una legge costituzionalmente necessaria (l’articolo 116, comma 3, delinea già un procedimento; la Costituzione si limita a istituire una facoltà; la legge Calderoli in quanto ordinaria è di attuazione solo in quanto il legislatore successivo la reputi tale perché non può vincolare le leggi, sempre ordinarie, di cui alle intese); non è una legge di bilancio (il collegamento con la manovra finanziaria non è sufficiente a qualificare una materia come “di bilancio” così come non lo è la semplice citazione del bilancio stante la costante premura nel ribadirne l’invarianza); la legge ha una ratio chiara e così il suo rifiuto totale (non vi è disomogeneità).
Preciso: affermare che la legge Calderoli non sia costituzionalmente necessaria non significa – rinvio a quanto detto sopra – che sia inutile abrogarla. È una procedura volàno di violazione di principi costituzionali (eguaglianza e solidarietà in primo luogo) e in sé emblema della neutralizzazione della democrazia come pluralista e conflittuale (il procedimento si gioca tra capi) e come sociale (il mantra dell’equilibrio di bilancio e la surrogazione dei diritti con la determinazione dei LEP svuotano la garanzia dei diritti sociali).
Lo ripeto. È una questione di democrazia, di quale democrazia vogliamo. Siamo realisti, chiediamo l’impossibile. È possibile.