«I cittadini hanno diritto di riunirsi pacificamente e senz’armi. Per le riunioni, anche in luogo aperto al pubblico, non è richiesto preavviso. Delle riunioni in luogo pubblico deve essere dato preavviso alle autorità, che possono vietarle soltanto per comprovati motivi di sicurezza o di incolumità pubblica». Cosa ci sia di poco chiaro in questa disposizione costituzionale è un mistero. Le forze di polizia dovrebbero essere i garanti di questa libertà costituzionale.
Dovrebbero essere dalla parte e sostenere, dunque, chiunque manifesti il proprio pensiero in pubblico, sotto i palazzi della politica, o magari davanti ad un Senato accademico.
Il diritto al dissenso è tutelato, quello al consenso non ne ha bisogno. Chi si riunisce pacificamente e senz’armi non deve chiedere permesso (autorizzazione), né possono essere sindacate le ragioni che hanno mosso i cittadini a scendere in piazza. Il preavviso alle autorità può portare a vietare le riunioni solo per motivi di sicurezza e incolumità «comprovati». Tanto più nel corso di riunioni pacifiche e senz’armi l’intervento dell’autorità in via di principio non può essere legittimo.
L’unica eccezione possibile è quella di fronteggiare atti diffusi di violenza da parte dei manifestati ovvero pericolo effettivo («comprovato») per la sicurezza e l’incolumità pubblica.
Ora al di là della fantasia e della propaganda credo che nessuno, in questi giorni di protesta degli studenti, possa riscontrare atti diffusi di «devastazioni, aggressioni, scontri, assalti al rettorato e al commissariato», così come si è artatamente sostenuto. Che i giovani sedicenni di Pisa potessero rappresentare un pericolo per la collettività è una tale e palese falsità che è stata certificata con parole chiare dal nostro presidente della Repubblica; che le contestazioni che in questi giorni si esprimono nei diversi atenei italiani siano del tutto legittime non dovrebbe essere neppure discusso.
Anche se dovessero essere riscontrati singoli episodi di violazione di leggi saranno i tribunali a verificarlo. Nessuna carica è possibile per reprimere un singolo episodio. Ed è abbastanza evidente che violenze perpetrate dalle forze dell’ordine per impedire lo svolgersi delle proteste o anche l’ordinato defluire di cortei spontanei (il cui tragitto può essere concordato, ma non impedito) possono generare tensioni e ribellioni. Il rischio è di amplificare la violenza, da entrambe le parti. Le cariche non sono mai «atti di gentilezza».
Fatta salva la violenza e la commissione di reati, non è poi dato reprimere le forme o il contenuto della manifestazione del pensiero. L’unico limite costituzionale è il buon costume, mentre espressioni offensive, che violano la dignità altrui, possono sempre essere perseguite a querela di parte. Urlare in piazza per farsi ascoltare rientra pienamente nella libertà di riunione, persino comportarsi in modo «scomposto» o provocatorio.
Il ministro Piantedosi, per giustificare il comportamento violento delle forze dell’ordine nei confronti dei manifestanti, ha affermato che in fondo cariche ci sono sempre state. Ha ragione, persino abusi d’autorità o incapacità di gestione della piazza sono stati frequenti. In passato però si volevano contrastare atti presunti o reali di pericolo per la sicurezza e l’incolumità pubblica. Ora, i presupposti costituzionali non sono neppure latamente configurabili. È la cultura del controllo che viene a sostituire il rispetto delle opinioni altrui e le garanzie costituzionali affinché esse possano trovare forma politica. Una china che deve far riflettere.