La sensazione di essere alla vigilia di una svolta profonda mi sembra generalizzata: è un dato che ci accomuna. Verso dove stiamo andando e come reagire al cambiamento annunciato è più oscuro, e spesso ci separa. Ciò che ci unisce è anche la voglia di cambiare lo stato delle cose. Magari siamo confusi, forse divisi ma siamo tutti all’opposizione. Dunque, alla ricerca di un cambiamento possibile. Una terza cosa che ci unisce – ahinoi – è la difficoltà del presente che rende complesso far valere le nostre ragioni nei palazzi del potere, così come presso un’opinione pubblica distratta. Un’afasia che non è solo il frutto di una sconfitta elettorale, quella del 25 settembre, che può anche allarmare, ma ben più preoccupante è come ci si è arrivati e le condizioni che si sono determinate.
Dopo il governo tecnico – al quale tutti o quasi avevano delegato la determinazione della politica nazionale – il ritorno della politica che, nel vuoto di proposte di cambiamento reale, ha visto l’affermazione di una nuova destra. La quale se, da un lato, si pone nel segno della continuità nei rapporti internazionali e nelle politiche economiche, dall’altro, manifestata una chiara volontà di cambiare nel profondo le radici della nostra democrazia costituzionale.
Non solo le politiche sociali o quelle disumane in tema di migrazioni, ma anche quelle direttamente rivolte e modificare la nostra forma di governo: eleggendo direttamente un capo, abbandonando il parlamento al suo definitivo declino, rinunciando alla forza di riequilibrio di un presidente della repubblica garante della costituzione. Nonché l’intenzione dichiarata e in avanzato stato di costruzione di stravolgere la nostra forma di stato regionale: imponendo un regionalismo di tipo competitivo ed egoistico, con l’appropriazione delle funzioni, anche quelle di più evidente rilievo nazionale, abbandonando un regionalismo – forse mai nato ma costituzionalmente ben definito – di tipo solidale e fondato sul principio di differenziazione ed esaltazione delle virtù – non invece degli egoismi – delle comunità locali.
In questa situazione, per tutte quelle forze che si riconoscono ancora nella nostra democrazia costituzionale, diventa un obbligo civile, prima ancora che politico quello di riprendere la parola.
Riprendere la parola, ma per dire cosa? Quali sono le parole che ci possono unire, quelle che possono distinguere la nostra visione del mondo da quella attualmente prevalente? E poi oltre alle parole, dovremmo riuscire anche a trovare la sintassi per scrivere la nostra storia, la nostra diversa storia fondata sui nostri diversi valori.
La mia convinzione è che non è difficile trovare né le parole né la sintassi comune a tutti coloro che vogliono cambiare orizzonte in nome della solidarietà, anzi in nome della libertà, dell’eguaglianza e della fraternità: liberte, égalité, fraternité, ecco le nostre parole. Simboli e termini pieni di storia, che sono stati ormai sostituite da altre parole – anch’essa piene di un’altra storia – come Dio, Patria e famiglia. Sono queste le parole che si pongono a fondamento del nuovo che avanza e che noi vorremmo fermare o quantomeno mutare nel loro significato metaforico.
E la sintassi? Io credo che sia quella scritta nel patto fondativo della nostra repubblica. In quella rivoluzione promessa che è ancora tutta da attuare, a cui molti da tempo – anche dalle nostre parti – avevano rinunciato o sottovalutato o preteso di stravolgere, ma che ora faremmo bene a riconsiderare e porre al centro del nostro operare.
Vorrei fornire un argomento in più per rilevare l’urgenza di aprire una stagione di lotta per l’attuazione costituzionale e la richiesta di un radicale cambiamento in suo nome.
Come diciamo noi poveri ed inascoltati costituzionalisti – ma è una realtà scolpita nel marmo della storia – le costituzioni vengono scritte in tempi di sobrietà e saggezza perché devono valere in tempi di ebbrezza e sbandamento.
Ecco, se questi sono tempi confusi, a rischio di essere travolti da eccessi di euforia incontrollata, l’àncora – la saggezza e la sobrietà – costituzionale può evitare di andare alla deriva, finendo per farci allontanare da un sistema di valori che pone la persona e la sua dignità al centro dell’agire sociale e politico; l’accoglienza dei diversi e degli stranieri come specifica responsabilità della Repubblica; la garanzia e il riconoscimento dei diritti inviolabili come suo compito; i doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale come suo impegno; il lavoro che, in tutte le sue forme, è da considerare un diritto, e che dunque deve assicurare, anche nei casi di disoccupazione involontaria, un reddito che sia in grado di garantire a sé e alla propria famiglia un’esistenza libera e dignitosa. Sono queste alcune delle voci – tratte dalle parole della costituzione – che possono sostenere ed ispirare la nostra agenda sociale. (…)
Ciò che deve tenere unite oggi le forze che si oppongono è la consapevolezza che la costituzione non è solo un’arma di difesa ma anche di attacco in periodi difficili quali sono i nostri. Un’arma necessaria per ricostruire una politica che guardi ai diritti delle persone concrete e non solo alla concentrazione del potere. Per troppo tempo ci siamo limitati a inseguire le ragioni degli altri e ci siamo persi. Torniamo allora a riflettere sulle nostre parole.
Magari, nel segno del cambiamento costituzionale, si potrebbe pure riuscire a ritrovare un popolo che oggi è disperso, ma non domito.
* Pubblichiamo uno stralcio dell’intervento svolto alla riunione presso al Camera dei Deputati del “tavolo di confronto permanente” promosso dalla Rete dei numeri pari che ha coinvolto i diversi partiti di opposizione.