Chi si è battuto per il no al referendum costituzionale del 2020 aveva ragione: ora, la riduzione del numero degli eletti produrrà un effetto maggioritario a tutto vantaggio delle destre portando alla delegittimazione ulteriore della rappresentanza parlamentare
Avevamo ragione, ma avremmo preferito avere torto.
Avevamo ragione quando decidemmo di batterci in una dura battaglia contro i media mainstream e contro tutte le principali forze politiche per contrastare il taglio dei parlamentari promosso dal Movimento 5 Stelle.
Avevamo ragione quando, isolati e additati come profeti di sventura, sommessamente facevamo presente che la riduzione del numero dei parlamentari avrebbe ingenerato un effetto ulteriormente maggioritario sul sistema elettorale, determinando un innalzamento implicito della soglia di sbarramento e una dote in seggi più generosa per le coalizioni in grado di conseguire la maggioranza relativa dei voti.
Avevamo ragione quando, in un angolo, sostenevamo che il taglio avrebbe consentito alle destre di accentuare l’esito numerico di una vittoria già scontata rendendo plausibile il conseguimento di un numero di seggi idoneo a consentire la modifica della Costituzione senza necessità di ricorrere al successivo voto referendario.
Avevamo ragione quando vedevamo nel taglio del numero dei parlamentari la prima avvisaglia di un’onda più grande, antiparlamentare, contraria alla cultura del costituzionalismo democratico, che si sarebbe abbattuta sull’Italia e sulle sue istituzioni già fragili.
Avevamo ragione quando rimproveravamo al Partito democratico guidato da Nicola Zingaretti di assecondare un processo di modifica strutturale degli assetti istituzionali solo per omaggio ad un governo e a una alleanza legati alle contingenze, un governo che sarebbe caduto dopo soli un anno e cinque mesi, un’alleanza che avrebbe resistito, per forza d’inerzia, per meno di due anni.
Avevamo ragione quando, in più di sei milioni, ci recammo al seggio per segnalare contestualmente un disagio e un senso di appartenenza alla cultura costituzionale italiana.
Avevamo ragione quando decidemmo di manifestare, anche attraverso le pagine di questa rivista, il nostro dissenso a costo di passare per “quelli che difendevano le poltrone”. Ora, di poltrona, rischia di restarne soltanto una: quella del decisore unico, dell’amministratore delegato della Repubblica Italiana che le destre vorranno introdurre modificando la Costituzione del 1948 a colpi di maggioranza.
Ora il rischio di una deriva autocratica e cesarista, di una svolta gaullista, di un superamento non soltanto sul piano fattuale ma anche su quello giuridico del parlamentarismo nato dalla Resistenza, è più attuale e concreto che mai. In piena onestà, non si può far finta di credere che la delegittimazione del Parlamento derivante dal contingentamento della rappresentanza politica per un risibile risparmio di spesa non abbia contribuito a creare i presupposti giuridico-culturali per la messa in discussione della stessa forma di governo parlamentare. Contrastare una tendenza all’avvitamento del sistema istituzionale ed impedire lo stravolgimento delle istituzioni democratiche saranno le sfide più difficili che saremo chiamati a intraprendere nella prossima legislatura, senza garanzie di buona riuscita.
Anche questa volta ci additeranno come profeti di sventura. Speriamo solo, stavolta sul serio, di avere torto.