L’occasione per Prodi di essere eletto alla Presidenza della Repubblica si presentò nel 2013 ma si dissolse rapidamente rivelando una fronda interna al Pd di proporzioni inaspettate. Prodi valuta i voti del Pd che gli sono mancati ben più dei 101 franchi tiratori, di cui si è parlato all’epoca, perché ritiene di avere attirato voti anche dall’altro schieramento. Resta un fatto grave, per certi versi inspiegabile, che il Pd non abbia mai aperto una riflessione per comprendere le ragioni dell’affossamento della candidatura del suo fondatore. Non avere aperto una riflessione lascia un’ombra inquietante sul Pd che sembra non essere in grado di affrontare pubblicamente questa ferita. Non lo è stato dopo la bocciatura e le dimissioni di Bersani, né con i successori immediati, né con Renzi, né con Zingaretti e per ora neppure Letta ha deciso di fare chiarezza.
L’impressione, dopo la lettura del libro, è che Prodi non abbia fatto uscire questo lavoro, curato da Marco Ascione, per candidarsi nella competizione per il prossimo Presidente della Repubblica. Anzi, mette le mani avanti, memore della bruciante avventura del 2013, dichiarando in anticipo le sue posizioni politiche senza infingimenti: “sono rimasto un uomo di parte”. Così tutti sanno come regolarsi. Memore che avere concluso l’assemblea nazionale del Pd senza un voto formale sulla sua candidatura, accontentandosi di un ambiguo applauso, è stato un errore. Prodi invece è prodigo di indicazioni, suggerimenti a quel magma che dovrebbe diventare l’alternativa politica alla destra. Afferma Prodi: “Bisognerà capire se il Partito Democratico e il Movimento 5 Stelle si limiteranno ad una relazione interessata o lavoreranno ad un programma vero”. Purtroppo ignora la sinistra. Prodi diventò giovane ministro dell’Industria nel 1998, restando pochi mesi, sufficienti per dare il suo nome ad una legge che, attuando la Costituzione, stabiliva per la prima volta che quando una grande impresa è importante per il paese, per la società, non può essere lasciata affondare per gli errori della proprietà. Le sorti dell’azienda vanno separate dalla proprietà. La legge Prodi introdusse il commissariamento delle grandi aziende in crisi per garantire continuità produttiva e occupazione, il tessuto produttivo e sociale del paese.
Ero alla Cgil dell’Emilia Romagna, che aveva il coordinamento del gruppo Maraldi, presente nel saccarifero e nell’acciaio in diverse regioni, entrato in crisi perché la proprietà aveva fatto debiti con le banche a breve, senza puntare a finanziamenti a lungo termine. L’inflazione a due cifre fece schizzare i tassi a breve e il gruppo, malgrado la ricchezza prodotta dal saccarifero, non riusciva più a reggere. Non era certo il primo caso di crisi, ma fu la prima vertenza che riuscì a stanare governo e parlamento costruendo un sistema di alleanze che riuscì a convincere e ad arrivare all’approvazione della nuova normativa. Gli interlocutori del sindacato nel governo erano Prodi, ministro, e Scotti, sottosegretario alla Presidenza. Prodi ricorda che al termine della riunione al Senato sulla legge seppe dalla stampa di non essere più ministro ma stranamente dimentica che contemporaneamente all’esterno del Senato, come della Camera, c’erano manifestazioni dei lavoratori che chiedevano con forza la legge per continuare a lavorare e raggiunsero l’obiettivo.
Il libro affronta diverse fasi, contiene episodi curiosi, mi soffermo solo su alcuni passaggi.
È interessante che Prodi rifletta prima sul periodo del risanamento dell’IRI poi sulla sua privatizzazione. Ricordando il mandato ricevuto da Ciampi nel 1993 di privatizzare. Evidentemente Prodi riteneva che non vi fossero alternative alla vendita delle aziende pubbliche, anche se rivela che in alcune occasioni tentò la via di un azionariato popolare senza riuscirci, probabilmente intuendo che la vendita di pezzi importanti delle industrie, come l’acciaio ai Riva, o delle telecomunicazioni non prometteva bene. Interessante la riflessione ex post sull’esperienza francese che pur avendo partecipazioni pubbliche minoritarie in aziende considerate strategiche compensa il minore numero delle azioni con una presenza perfino invasiva dello Stato nelle decisioni chiave, come ben sa Fincantieri, a partire dagli acquisti da parte di aziende straniere, considerando tali anche quelle dell’UE. Questo avrebbe richiesto una chiarezza e continuità nelle politiche industriali del governo, sembra pensare Prodi, che in Italia non c’era. Resta il fatto che le privatizzazioni andrebbero ripensate dopo la sbornia liberista, i risultati sono stati spesso impoverimento delle aziende, spolpate, e conseguenze occupazionali. A distanza di molti anni ci misuriamo ancora con questo nodo. Siamo al paradosso che dopo aver sentito rispondere dai governi a Landini che la partecipazione pubblica nell’ex Ilva non era possibile, ora si rischia di avere una presenza pubblica dominante senza avere chiaro quale sia l’obiettivo di politica industriale di questa presenza. Il nodo ricordato da Prodi è ancora da risolvere.
Interessanti senza dubbio i passaggi più politici, due volte presidente del Consiglio, dopo avere sconfitto Berlusconi, e presidente della Commissione europea. Prodi ricorda le importanti parole di Dossetti: riformare la politica con un’adesione finalmente sostanziale ai dettati della Costituzione, non si può che condividerle. Berlusconi vince nel ‘94 ma il governo cade dopo pochi mesi e arriva Dini, poi nel ‘96 si torna al voto. Occorre decidere l’alternativa alla destra e nasce l’Ulivo. Le 88 tesi, un contenitore comune, i comitati di cittadini e il patrimonio di persone coinvolte, la desistenza con Rifondazione sono i presupposti della vittoria dell’Ulivo, che sfruttò anche la divisione a destra. Il primo governo Prodi compie scelte importanti, certamente l’entrata nell’euro è il risultato più rilevante e forse la “tassa per l’Europa”, poi restituita, rappresenta un punto alto di fiducia popolare. Tanto è vero che al primo accenno di possibile crisi ci furono reazioni, non solo dai partecipanti alla marcia della pace Perugia-Assisi ma con i pullman organizzati da settori decisivi di classe operaia delle aziende del Nord che arrivarono a Roma e sconsigliarono Rifondazione dall’insistere per la crisi. Un anno dopo i pullman non ci sono stati e la crisi del governo Prodi è stata inevitabile. Non sono convinto che le 35 ore potessero essere liquidate con sufficienza e non si trattava solo di una bandiera di Rifondazione. La riduzione dell’orario di lavoro nelle più svariate situazioni è un punto importante per l’occupazione e la qualità del lavoro. Lo diceva l’esperienza francese, ma anche quella tedesca, più pragmatica ma presente in settori produttivi fondamentali. Ancora oggi non abbiamo una risposta coerente sulla riduzione dell’orario di lavoro. Infatti l’accento non a caso finì sulla precarizzazione del lavoro, di cui Treu fu protagonista.
Rifondazione certamente sbagliò a provocare la crisi, ma anche il governo non capì che occorreva dare risposta con una diversa chiave ai problemi dei lavoratori di fronte alle conseguenze delle decisioni per entrare nell’Euro. Eppure da diverse parti venivano suggerimenti positivi. Dal presidente della Commissione lavoro del Senato Carlo Smuraglia, come dal Pds nazionale, quando portai Martine Aubry ad iniziative congiunte Pds/Psf a Roma per stabilire un legame con l’esperienza francese delle 35 ore, senza scopiazzature. La delusione, la ferita della caduta del governo Prodi erano proporzionali alle enormi speranze che aveva suscitato. Tutti i protagonisti oggi dovrebbero riflettere con maggiore capacità autocritica a quanto non hanno fatto per evitare quella crisi.
La riflessione sulla bicamerale non è convincente. La bicamerale per riformare la Costituzione è stata un errore i cui protagonisti sono noti, ma nelle 88 tesi dell’Ulivo ci sono semi-presidenzialismo e legge elettorale a doppio turno, quindi c’era più continuità tra Prodi e D’Alema di quanto si lasci intendere. Resta il fatto che anche una riflessione (autocritica?) di D’Alema sarebbe importante. La bicamerale non arrivò al risultato finale ma contribuì ad abbassare la soglia politica e psicologica per cambiare la Costituzione, che fino ad allora era stata alta e richiedeva una larga condivisione politica e di questo la sinistra era il garante. Avere mollato gli ormeggi si è rivelato un disastro.
Basta pensare all’assurda modifica del titolo V che tanti problemi irrisolti ha creato e sta creando, compresa la deriva dell’autonomia regionale differenziata, che in pratica sogna un’Italia tutta di Regioni speciali, con il rischio evidente di minare l’unità nazionale.
Interessante poi la riflessione sul secondo governo Prodi (2006/2008).
Gli errori fatti in precedenza si sono ripresentati, anche se con protagonisti non sempre identici. Prodi fu candidato alla testa dell’Unione nel 2006 e vinse, sia pure di poco, con l’ambizione di un governo di legislatura. Sarebbe interessante riflettere meglio su punti forti e debolezze dell’Unione e del suo governo, bisognerà farlo, ma ora mi soffermo solo su un aspetto importante. Per la prima volta Prodi dice chiaro che la nascita del Pd anziché essere un fattore di stabilità spinse il governo verso la crisi (p. 164) con la dichiarazione di Veltroni sulla vocazione maggioritaria, mise in fibrillazione i vari gruppi centristi e moderati, da Mastella a Dini, mentre Rifondazione e la sinistra – con buona pace dei protagonisti – non furono il motore della crisi. Come ricorda Prodi la trattativa sulla legge elettorale tra Veltroni, Berlusconi e Bertinotti confermò agli interessati che l’obiettivo era fare fuori i piccoli partiti.
Una sottolineatura su Prodi Presidente dell’Unione Europea. Dice Prodi: Ogni nano con il diritto di veto si sente un gigante, è un cancro che va estirpato. Con tutto il rispetto per le scelte che si imponevano verso i paesi provenienti dal blocco ex sovietico la decisione adottata, frettolosa e con una forte pressione americana, ha reso ancora più difficile estirpare il cancro perché per farlo occorre l’unanimità dei governi e i nuovi arrivati hanno imparato in fretta come usare il loro veto per bloccare le decisioni. Una riflessione che forse Prodi non si sente di fare, in quanto ex protagonista, è l’autocritica sull’avere creato un circuito vizioso in cui domina la regola dell’unanimità che di fatto impedisce di cambiare i trattati. Forse cambiare prima dei nuovi ingressi nell’Unione avrebbe consentito di cambiare le regole di decisione in Europa, da momento che oggi è pressoché impossibile. Anche per questo la novità del Next Generation EU è molto importante, ma non è detto che si riusciranno a cambiare le vecchie regole europee e questo sarebbe un disastro per i paesi che come l’Italia hanno più bisogno di usare le risorse europee e che invece dall’inizio del 2023 potrebbero dover programmare un dolorosissimo rientro del bilancio nei parametri dell’austerità.
Il libro di Prodi contiene molti spunti, interessanti notizie di varia natura, aneddoti, sarebbe importante contribuisse ad una riflessione su due decenni sui quali non è mai stato fatto un esame adeguato. Non c’è stato il coraggio di farlo. Non si tratta solo di mettere a punto il racconto ma di trarne spunti, conseguenze per l’oggi. Ne abbiamo molto bisogno. Nel 2008, dopo la caduta del governo Prodi, contrariamente ad altri avevo scritto un libretto (Ediesse) Ripartire da Prodi, non necessariamente con Prodi ma certamente senza buttare alle ortiche un’esperienza e anzi cercandone i punti deboli per rilanciarne la suggestione di fondo di un’alleanza riformatrice, di cui ci sarebbe più che mai bisogno oggi di fronte alla crisi climatica, al cambio di paradigma produttivo ed economico, al bisogno di rilanciare il ruolo centrale del lavoro (di qualità) in modo del tutto nuovo. Le sfide ci sono tutte, le risposte in campo per ora no.