Michela Murgia ha vinto: era lei la vera opposizione

di Tomaso Montanari - il Fatto Quotidiano - 18/08/2023
“Diceva verità e il potere la odiava” - È stata la risposta a chi dice che devono essere separate, che la cultura non è impegno, che l’università fa pezzi di ricambio

Michela Murgia è stata la risposta a chi dice che letteratura e politica devono essere separate, che la cultura non ha nulla a che fare con l’impegno, che l’università è la fabbrica dei pezzi di ricambio per il mondo com’è. La sua scrittura era indivisibile dal suo discorso pubblico, la sua invenzione letteraria dalla sua vita. E a chi oggi insinua che della sua opera rimarrà poco o nulla, aveva già risposto con un’idea di canone e di funzione della letteratura che non è quella imbalsamata dei manuali, ma invece coincide con un principio di liberazione. È questo l’unico modo di intendere scrittura e letteratura? Certo che no: ma è un modo di cui oggi abbiamo terribilmente bisogno. E non dimentichiamo che “la posizione secondo cui l’arte non dovrebbe aver niente a che fare con la politica, è già una posizione politica” (George Orwell).

“Per me – ha detto Michela Murgia in una intervista a Concita De Gregorio – scrivere e fare politica sono la stessa cosa. Cominciare a raccontare è stato un gesto violento di reazione. Come fa il topo quando è nell’angolo, ha mai ucciso un topo? Nelle case di paese quando c’è un topo in casa le donne sanno che bisogna stancarlo. Allora cominciano a battere per terra con la scopa, e lui scappa, e loro battono, e lui scappa, e loro battono ancora finché non si stanca. Quando si stanca rallenta, e finisce in un angolo. Proprio un momento prima di essere colpito il topo, vinto, fa una cosa in apparenza insensata, l’unica che può fare: attacca. Non importa se tu sei cento volte più grande di lui e stai per ucciderlo: lui ti si avventa contro, attacca. Io ero quel topo.

La mia storia è quella della mia generazione. Ho lavorato in una centrale termoelettrica e ho fatto il portiere di notte, ho insegnato a scuola e ho venduto aspirapolveri al telefono in un call center. Ti dicono che è flessibilità, diventi un saltimbanco del precariato. Scadeva un contratto e loro battevano, compromessi, battevano, umiliazioni e ricatti, battevano e battevano. Allora ho fatto l’unica cosa che potevo ancora fare. La scrittura come ribellione, un gesto politico. Se non puoi fare più niente almeno dillo. Poi sono stata fortunata, certo. Ho trovato chi ha letto, ho potuto scrivere ancora”. Sono parole precise, tornite: con un’estrema aderenza alle cose. In un Paese senza politica, in un Paese senza sinistra, in un Paese cattolico ma assai poco cristiano, Michela Murgia è stata politica, di sinistra, cristiana: e lo è stata attraverso le sue parole.

Diceva la verità: e dunque il potere la odiava. La diceva sulla sinistra che non c’è (“Il Pd ha smesso di scrivere la sua storia da tempo. Ricordo quando Bersani disse agli industriali veneti: la Lega vi ha promesso il federalismo fiscale ma non ve lo ha dato, lo faremo noi. Ricordo quando Rutelli, per reagire alla campagna sulla sicurezza imbastita da Alemanno, fece i manifesti che dicevano ‘Né quartieri alti né quartieri bassi solo quartieri sicuri’”), la diceva sulla destra che c’è (“il governo Meloni è un governo fascista”), lo diceva sull’uso politico del cristianesimo (perché, sono parole di Rosy Bindi in dialogo con Michela, “l’uso improprio della religione come strumento di potere è il più grande tradimento del Vangelo”).

Michela Murgia ha preso su di sé un grande peso: la supplenza di una opposizione di cultura e di idee che semplicemente non c’era. Il prezzo è stato altissimo: è stata massacrata, denigrata, pubblicamente vilipesa come poche altre persone (“È l’unico Paese che si definisce democratico dove gli intellettuali sono perseguitati dal potere”, diceva lucidamente). Ma alla fine ha vinto lei: perché, come ha spiegato Hannah Arendt, “la verità, anche se priva di potere, e sempre sconfitta nel caso di uno scontro frontale con l’autorità costituita, possiede una forza intrinseca: qualsiasi cosa possano escogitare coloro che sono al potere, essi sono incapaci di scoprire o inventare un suo valido sostituto. Persuasione e violenza possono distruggere la verità, ma non possono rimpiazzarla”. Michela ha vinto perché ha conservato fino in fondo la sua leggerezza, la sua tenerezza.

Se chiudo gli occhi la vedo che sorride: come in questa fotografia, scattata nel marzo scorso, nella mia Università per Stranieri di Siena. Sorride, insieme al gruppo delle e dei nostri docenti di lingua e cultura coreane (una cultura che tanto amava). Dietro di lei, in un dettaglio del grande murale dedicato ai Fratelli Rosselli, si legge “Non mollare”: il motto per eccellenza dell’antifascismo, il motto dell’intera vita di Michela, fino all’ultimo. Ci aveva fatti incontrare la sua passione per il meticciato, l’incontro, il multiculturalismo: perché, ha scritto, “il confine non ci circonda, ma ci attraversa, e quel che avvertiamo come contraddizione è in realtà uno spazio fecondo di cui non abbiamo ancora compreso il potenziale vitale”. Per questo le bandiere dell’Università per Stranieri di Siena, sabato, erano a lutto per lei. Per questo continueremo a sentirla tra noi.

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