Non ci resta che fare da soli

di Paolo Cacciari - Altraeconomia - 12/05/2020
L’articolo è tratto dall’introduzione del libro, edito da Altreconomia, Ombre verdi. L’imbroglio del capitalismo green. Cambiare paradigma dopo la pandemia di Paolo Cacciari

Che mondo ci dobbiamo aspettare una volta passato il trauma dell’emergenza sanitaria causata dalla pandemia da Sars-CoV-2? E prima ancora: ci sarà un “dopo”, oppure sarà un day after? Rimarrà un evento straordinario o sarà una tendenza permanente? Perché una cosa è certa: questa non sarà l’ultima epidemia che subiremo. Dovremo quindi abituarci a convivere con le epidemie, come già accade “normalmente” per il rischio nucleare, il terrorismo, l’inquinamento o il cambiamento climatico? Le epidemie saranno la nuova malattia sociale del mondo globalizzato, come lo sono state la tubercolosi, la pellagra e la silicosi nei secoli della prima industrializzazione, gli incidenti stradali, i disturbi mentali e il cancro poi? Quali cambiamenti culturali, politici, antropologici sta inducendo questa drammatica esperienza nella vita delle persone? Quale sarà insomma la nuova normalità?

Sono domande che giustamente tutti ci stiamo ponendo in questo momento di preoccupante passaggio della storia umana. E le risposte sono molto diverse e articolate. C’è chi spera che l’homo post-coronavirus – spinto dagli eventi sulla strada della saggezza – saprà trovare una coscienza di specie non antropocentrica, acquisirà maggiore consapevolezza della sua vulnerabilità e fragilità e saprà diventare più sensibile, solidale e umanitario cercando di trovare un rapporto più armonioso con la natura e più empatico con i suoi simili. Altri invece temono che – riposte le urne nei cimiteri, sanificate le case di riposo, rimessi in moto i motori delle fabbriche, riaperti gli stadi – tutto tornerà come prima. Anzi peggio, perché servirà recuperare in fretta il tempo perduto dalla forzata fermata, riconquistare i mercati di sbocco rimasti sguarniti, recuperare redditi e Pil. È molto probabile che le ripercussioni del lockdown sull’economia globalizzata porteranno a una crisi senza precedenti.

Gli “strascichi” della pandemia colpiranno anche le casse degli stati, prosciugate dagli interventi emergenziali, che saranno costretti ad un indebitamento senza precedenti. Quanto basta per imprimere una svolta alle tradizionali politiche monetarie ordoliberiste (quelle dell’austerità, per intenderci) a favore delle teorie keynesiane della “spesa a debito”, con poderose immissioni di liquidità, azzeramento dei tassi di interesse, acquisto di titoli di stato da parte delle banche centrali, prestiti con o senza l’emissione di Covit-bond, con o senza helicopter money.

La “ripresa” imporrà a ogni ganglio della società un maggiore “sforzo produttivo”, una maggiore efficienza e competitività delle aziende per non “restare indietro”. Lo spirito di sacrificio e la coesione sociale dimostrati dalle popolazioni durante il lungo lockdown dovranno essere travasati nella “ripartenza”. Le restrizioni e i blocchi, i confinamenti e i distanziamenti, i droni e i checkpoint sono stati una sorta di stress-test per mettere a prova le capacità di resistenza e di disciplina sociale. Un addestramento.

Dalla “guerra al virus” alla economia di guerra il passo è breve. Le inchieste di Naomi Klein ci hanno spiegato che gli shock esogeni, come lo sono gli uragani e i terremoti, possono funzionare da potenti acceleratori dei processi di ristrutturazione economici e di rilancio dei tassi di sfruttamento, di profitto e di arricchimento per alcuni. Quindi, possiamo affermare che anche il virus Sars-CoV-2 – come quasi tutte le disgrazie – è di destra! Legittima derive autoritarie, disciplina e nazionalizza le masse, accentra e rafforza i poteri decisionali, alimenta l’egoismo, riscopre il malthusianismo e legittima il darwinismo sociale. Crea un clima di “stato permanente d’eccezione”, avverte il filosofo Giorgio Agamben. Già Erich Fromm constatava che gli stati di angoscia sono il preludio di svolte autoritarie. Quando viene messa in discussione la sopravvivenza le pulsioni securitarie prendono il sopravvento.

Le associazioni economiche degli imprenditori gridano che la cura sarebbe peggiore della malattia. Si è tornati a ragionare con il bilancino della partita doppia: costi/benefici, perdite/profitti. A fonte della Caporetto dei sistemi sanitari impreparati e scassati da anni di definanziamento (compresa la stessa Organizzazione Mondiale della Sanità), è apparso come inevitabile il dover scegliere tra il contenimento dell’epidemia e la distruzione dell’economia. Come in tutti i momenti di crisi economica il capitalismo, pur di non cambiare il suo essere e i suoi paradigmi di azione, pone l’alternativa criminale tra migliaia di morti e milioni di disoccupati, tra reddito e rischio salute.

C’è da temere che anche per il Coronavirus possa accadere quel che è già successo con i gas serra: il passaggio dagli iniziali ambiziosi propositi di “abbattimento” alle strategie più accomodanti di “mitigazione” e “adattamento”. La rimozione dal discorso pubblico sul Covid-19 delle sue origini strutturali e delle cause della sua fulminea diffusione globale non promette nulla di buono.

Nel caso dei virus è già partita la corsa all’oro dei vaccini e ai sistemi tecnologici di sorveglianza biomedica: una combinazione tra dispositivi elettronici mobili, reti 5G, bigdata e bigpharma. Interessante notare che in tutti e due i casi le fondazioni del filantropo Bill Gates sono impegnate a proporre le loro soluzioni biotecnologiche. Nel caso del clima – racconta Naomi Klein, vedi il capitolo Fake Sustainability in questo libro – una società finanziata dal magnate in pensione, la Stratoshield, sta sperimentando l’immissione in stratosfera di un aerosol di anidride solforosa così da creare una barriera per diminuire l’insolazione sulla Terra. Nel caso delle malattie epidemiche la Fondazione Bill & Melinda Gates ha creato la società lobbistica Wlellcome Trust con lo scopo di «sviluppare otto nuovi potenziali vaccini per il Covid-19». Sulle pagine dei principali giornali del mondo, il giorno di Pasqua, Gates sprona i leader del G8 che «dovranno stanziare i fondi necessari alla ricerca per lo sviluppo di un vaccino». Allude alla ricerca in corso da decenni di un ipotetico vaccino universale per ogni tipo di influenza della famiglia Coronavirus. Ovviamente, spiega il magnate: «Se il settore privato è disposto a intervenire nella produzione del vaccino, non è giusto che lavori in perdita». Per cui, fatti i conti: «servono 7,4 miliardi di dollari nei prossimi cinque anni». Un nonnulla se si pensa alla «salute dei popoli più poveri della Terra». Per fortuna c’è chi pensa a loro!

Per parte sua, il presidente Trump, agli inizi di marzo, mentre ancora si ostinava a negare la gravità dell’epidemia, si incontrava con i vertici delle principali imprese farmaceutiche mondiali (Gilead, GlaxoSmithKline, Moderna, Novavax, Johnson & Johnson, Pfizer e altri) per discutere della ricerca di un vaccino anti Covid-19. Così riporta il giornalista Nicola Borzi de Il Fatto: «Per le imprese farmaceutiche investire denaro, tempo e ricerca nella produzione di vaccini (…) non è conveniente quanto produrre farmaci per curare malattie croniche». I primi che riusciranno a mettere in circolazione un vaccino si accaparreranno royalties miliardarie.

La razionalità strumentale non si è fermata ai cancelli della fabbrica, è entrata in corsia.

Se la domanda supera l’offerta disponibile, la domanda va selezionata e regolata secondo priorità “oggettive”. Il ragionamento, formalmente impeccabile, crolla al momento di scegliere i criteri di accesso a servizi che dovrebbero essere universali. Ha scritto l’associazione nata a Milano “Laudato si’”: vi è una «propensione mai sopita della nostra cultura a dividere tra vite degne e vite di scarto». Quanto può valere una vita di un anziano con pluripatologie? Del resto, è da tempo che i pazienti sono diventati prima utenti e poi clienti. Oltre all’etica e all’umanità, vengono calpestati un bel numero di articoli della Costituzione italiana.

Nel corso di questo libro parleremo della tendenza alla “assicurazionizzazione” (termine coniato dall’economista Luigino Bruni) di ogni attività a rischio. Cioè, del passaggio dai sistemi di sicurezza sociale universalistici a quelli individuali attraverso una contribuzione con capitalizzazione che prevedono la determinazione di un prezzario delle vite delle persone.

Tra le tante false retoriche che si sono sentite in questi mesi c’è quella del virus che opererebbe come una “livella sociale”. Le pandemie non conoscono barriere di classe, è vero, ma non è vero che siamo tutti sulla stessa barca. È ben diverso ammalarsi in un Paese con un sistema sociosanitario efficiente o in un campo profughi ai confini della fortezza Europa, in una casa di riposo subappaltata ai privati o in una villa con giardino, potendo disporre di un reddito garantito o non avendo nulla. I “danni collaterali” colpiscono, come sempre, le persone più fragili, emarginate e povere.

C’è solo un modo per giudicare obbiettivamente se la pandemia ha reso i nostri sistemi sociali più consapevoli e responsabili o non invece più cinici ed egoisti: verificare come vengono concretamente trattate le persone più in difficoltà. Fino ad ora le istituzioni pubbliche non hanno dato una buona prova di sé. Per mascherare i fallimenti delle azioni messe in atto dalle autorità pubbliche per contrastare il dilagare della pandemia è diventato invalso nelle televisioni e nei giornali l’uso di metafore belliche, descrivendo il virus come un nemico imbattibile. Lascio la penna a Pierpaolo Brovedani, un medico pediatra impegnato in un reparto di terapia intensiva neonatale di un ospedale di Trieste:

«La Medicina non usi un linguaggio di guerra. Di fronte alla pandemia da Covid-19 le parole usate dai mass-media, ma anche dai politici e dagli stessi dirigenti sanitari, fanno sempre più riferimento ad una terminologia di guerra. Medici e infermiere diventano “soldati” e addirittura “eroi”; le misure di contrasto al virus, una “battaglia”; la guarigione, una “vittoria contro il nemico”; le medicine sono “armi”; le terapie intensive si trasformano in “trincee”; i dispositivi di protezione, vere e proprie “corazze”. Così via, in un crescendo di linguaggio bellico sempre più delirante. Smettiamola di usare termini impropri per descrivere l’assistenza sanitaria. Il linguaggio della Medicina parla di difesa della salute fisica e psichica, di terapie appropriate, di farmaci efficaci, di tecnologie accessibili, di ricerca scientifica, di cura alla persona, di sollievo della sofferenza, di rispetto della dignità umana, di comunicazione e di sostegno. Il vocabolario della Medicina esprime parole di cura e di pace, non di guerra».

Le carenze del sistema sociosanitario (mancanza di un piano nazionale di emergenza e prevenzione, attrezzature insufficienti, mancanza di scorte di strumenti di protezione, mancanza di luoghi dedicati alla quarantena, inadeguatezza dei protocolli diagnostici e terapeutici) hanno trasformato il Coronavirus in una malattia nosocomiale, a diffusione ospedaliera e nelle residenze assistite (sic!), documentata dall’incredibile tasso di letalità e dai troppi contagi registrati tra gli operatori sanitari. Questioni non solo lombarde e non solo italiane.

Non c’è motivo per essere ottimisti sul dopo-emergenza sanitaria. Ma è anche vero che la pandemia ha messo a nudo le contraddizioni fondamentali del sistema socioeconomico e politico-giuridico dominante.

L’epidemia potrebbe/dovrebbe insegnarci molte cose. Ma perché ciò accada c’è in primo luogo la necessità di demolire la narrazione secondo cui le epidemie sarebbero eventi casuali, sconosciuti, imprevedibili, letali. Nessuna “catastrofe naturale” e nessun “castigo di Dio” si sono abbattuti su di noi. Le epidemie virali sono nella grande maggioranza dei casi di origine animale (zoonosi) e compiono un salto trans-specifico (spillover) a causa dei comportamenti a dir poco imprudenti messi in atto progressivamente dal genere umano che hanno devastato gli ecosistemi naturali, causato la più grande estinzione di massa delle specie viventi da 65 milioni di anni, tanto che il termine più appropriato che si possa usare per rappresentare ciò che avviene è biocidio.

I virus non compiono il pericoloso “salto di specie” per una particolare innata aggressività, ma perché costretti da perturbazioni ecosistemiche. Secondo l’ultimo Rapporto dell’Agenzia Europea per l’Ambiente circa il 75% dell’ambiente terrestre e oltre il 60% dell’ambiente marino sono gravemente alterati.

Il susseguirsi di malattie virali sempre più frequenti e potenti (Ebola, Hiv, influenza suina e aviaria, afta epizootica, febbre gialla, dengue, solo per citare le più note) sono la conseguenza delle alterazioni dei delicati equilibri naturali esistenti tra le differenti specie viventi e i loro relativi habitat provocati in gran parte dall’azione umana: cambiamenti climatici, deforestazioni, incendi di boschi primordiali, monoculture, scioglimento del permafrost, ecc.. Inoltre, i virus “tracimano” perché “invogliati” dalla vicinanza di ambienti particolarmente capienti e ospitali: i wet market cittadini (mercati in cui si vendono vivi e si macellano al momento animali selvatici e domestici), i macroallevamenti intensivi, gli insediamenti urbani privi di condizioni igieniche-sanitarie. Le malattie epidemiche zoonotiche sono un prodotto della domesticazione della natura, dell’urbanizzazione e delle condizioni di sovraffollamento.

I dati non sono precisi e variano a seconda delle diverse stime (cfr Fao, Lav, altri), ma gli ordini di grandezza sono questi: oggi vi sono nel mondo 1,5 miliardi di bovini d’allevamento, 1,7 miliardi di ovini e caprini, 1 miliardo di suini, 1 miliardo di conigli, 52 miliardi (sì, avete letto bene!) di avicoli, oltre a un numero imprecisato (30 milioni secondo l’Humane Society International) di cani e gatti macellati all’anno. Pangolini, serpenti, pipistrelli, scimmie e altri animali selvatici rimangono fuori dal conto. Aggiungiamoci circa 80 milioni di tonnellate di pesce d’allevamento pescato ogni anno. Cosicché il 26% della superficie terrestre è stato occupato da pascoli e il 33% dei terreni agricoli è impegnato per produrre mangimi. Aggiungiamoci le montagne di deiezioni prodotte dagli allevamenti che offrono ai patogeni ulteriori opportunità di infezioni. Poi ci siamo noi: 7,4 miliardi di persone, alcune delle quali dediche alla caccia e alla cattura di animali selvatici, al commercio di animali vivi, alla macellazione e al consumo alimentare (e non solo) di carne. In queste condizioni non deve stupire se qualche virus compie un “salto di specie” provocando ad esempio l’encefalopatia spongiforme bovina (il cosiddetto morbo della mucca pazza), o l’African Swine Fever, il virus della peste suina, o l’influenza aviaria.

Il Sesto Rapporto dell’Agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di ambiente riconosce che le epidemie sono un riflesso della degradazione dell’ambiente. «Le malattie trasmesse da animali a esseri umani stanno crescendo e peggiorano man mano che gli habitat selvaggi vengono distrutti dall’attività umana», perché: «gli agenti patogeni si diffondono più rapidamente verso le mandrie o le greggi e gli esseri umani». Quindi per prevenire e limitare le zoonosi bisogna fermare: «le molteplici minacce agli ecosistemi e alla vita selvaggia, tra le quali la riduzione e la frammentazione di habitat, il commercio illegale, la contaminazione e la proliferazione di specie invasive e, in misura sempre maggiore, il cambiamento climatico».

Un altro attento osservatore degli studi di biologia evolutiva, virologia ed ecologia, David Quammen, ipotizzò una decina d’anni fa esattamente ciò che sarebbe accaduto:

«Qualche Cassandra ben informata parla di Next Big One, il prossimo grande evento, come un fatto inevitabile (…) un’epidemia letale di dimensioni catastrofiche (…) Sarà causata da un virus? Si manifesterà nella foresta pluviale o in un mercato cittadino della Cina meridionale? Farà trenta, quaranta milioni di vittime? L’ipotesi è ormai radicata». Le cause sono ben individuate: «Mentre stiamo assediando, accerchiando, sterminando e macellando gli animali selvatici ci passano le loro malattie». E ancora: «C’è una correlazione tra queste malattie che saltano fuori una dopo l’altra, e non si tratta di meri accidenti ma di conseguenze non volute di nostre azioni. Sono lo specchio di due crisi convergenti: una ecologica e una sanitaria. Sommandosi, le loro conseguenze si mostrano sotto forma di una sequenza di malattie nuove, strane e terribili». E ancora: «Là dove si abbattono gli alberi e si uccide la fauna, i germi del posto si trovano a volare in giro come polvere che si alza dalle macerie. Un parassita disturbato nella sua vita quotidiana e sfrattato dal suo ospite abituale cerca una “nuova casa”(…) Dunque [i virus] non ce l’hanno con noi, siamo noi a essere diventati molesti, visibili e assai abbondanti». (David Quammen, Spillover, Adelphi 2014 [2012]).

La terra è un macrorganismo vivente in cui tutto si tiene: biologia, ecologia, economia, istituzioni sociali e politiche. La vita in salute di ciascun individuo è interconnessa e dipendente dal buon funzionamento dei cicli vitali del pianeta. La salute è un bene comune globale. In quanto esseri umani siamo parte della natura. Esistiamo gli-uni-con-gli-altri, in reciproca connessione. Ogni componente organica e inorganica, dai microorganismi agli esseri umani, concorre a formare un unico complesso sistema che mantiene le condizioni della vita sulla Terra. Ognuno di noi dipende dall’aria che respira, dai cibi di cui si nutre, dal tipo di energia che usa per muoversi, riscaldarsi e comunicare, dall’organizzazione sociale in cui è inserito. Siamo parte dell’universo bio-geo-fisico ed energetico.

Il prof Giuseppe Ippolito, direttore scientifico dell’Istituto nazionale malattie infettive dell’ospedale Spallanzani ha dichiarato: «Non è più possibile separare la salute degli uomini da quella degli animali e dell’ambiente: l’esperienza di questi anni, con l’emergere di continue zoonosi, ci ricorda che siamo ospiti e non padroni di questo pianeta e ci impone di cercare il giusto equilibrio tra le esigenze della specie umana e delle altre specie animali e vegetali che viaggiano insieme a noi in questa vita. Sulla stessa lunghezza d’onda Vandana Shiva, fisica e attivista indiana nel campo dell’agroecologia:

«Tutte queste emergenze sono radicate in una visione del mondo meccanicistica, militaristica, antropocentrica in cui l’uomo è separato e superiore agli altri esseri posseduti, manipolati e controllati e sull’idea di un modello economico basato sull’illusione di una crescita e di un’avidità senza limiti. Le malattie si stanno spostando da altri animali all’uomo poiché distruggiamo l’habitat delle specie selvatiche, alterando l’equilibrio tra animali, virus e batteri.»

C’è un grande pericolo: che l’allarme Coronavirus possa mettere in secondo ordine la lotta per la transizione ecologica. Sarebbe un errore letale. Per uscire dall’emergenza pandemica non basterà inondare il mondo con una pioggia di denaro “a debito”. Il sistema economico dominato dalla finanza era già entrato in fibrillazione con la crisi iniziata nel 2008: rallentamento dell’accumulazione e della redditività dei capitali, sovracapacità produttiva e sottoccupazione, diminuzione dei commerci e degli investimenti globali. La crisi viene da lontano e la pandemia è la spallata che può far crollare l’edificio pericolante.

In questo libro ho allora cercato di individuare delle vie di uscita che ci potrebbero evitare di finire sotto le macerie e aiutare a ricostruire una nuova casa comune, recuperando tutto il materiale recuperabile e i saperi accumulati, ma cambiando progetto e architetti. Ma per realizzare una profonda conversione ecologica e solidale degli apparati produttivi e dei comportamenti di consumo c’è bisogno di una condizione di partenza: una immissione massiccia – nelle nostre vite e nel sistema socio-politico – di razionalità e di senso etico. Due ordini di valori che il capitalismo ha perduto per strada, nella sua corsa suicida a capofitto verso il baratro della in-sostenibilità ambientale e della in-tollerabilità sociale.

Eppure le cose da fare per raggiungere gli obiettivi di sostenibilità ambientale e di giustizia sociale sono note. Siamo quasi stufi di elencarle. In appendice del libro richiamiamo la memoria su alcuni “vecchi” documenti per ricordarci che la strada è stata tracciata da tempo. Non la si riesce a percorrere perché le oligarchie ai vertici dei poteri economici dominanti non ce lo permettono. Alla fine è sempre una questione di potere e di soldi. Anzi, di potere dei soldi. Non ci rimane che fare da soli, come i benedettini nel medioevo: salvarci e salvare quel che c’è da salvare. Liberare spazi di relazioni autonome nelle campagne e nelle città, nei borghi e nei quartieri, nella sfera della produzione e in quella della cura della vita. Creare reti solidali, sistemi di mutuo aiuto e di autogestione di beni sottratti alle logiche del mercato e messi in comune. Anticipare e preparare nel concreto, con pratiche quotidiane, la società in cui vorremmo vivere. Creare comunanze, comunalità, comunità aperte, inclusive, solidali e sostenibili (leggi anche Mettiamo in comune di John Holloway, ndr). Non è un rinculare, ma una forma di organizzazione della protesta e della proposta. Il 2020 doveva essere anche l’anno del primo Forum intercontinentale dell’economia trasformativa a Barcellona. Un percorso di confluenza dei movimenti sociali, femministi ed ecologisti. La pandemia cambia i calendari, ma non l’impegno sociale.

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