Pro-Pal terroristi e altre scuse: infiltrare e punire l’università

di Tomaso Montanari - Ilfattoquotidiano.it - 09/07/2025
“A viso aperto”. Non hanno usato identità coperte: forse per saltare il vaglio dell’autorità giudiziaria? L’obiettivo: colpire gli atenei perché spazio critico di libertà

Nell’aprile del 2024, mentre il governo e alcuni noti editorialisti parlavano delle università come di incubatrici di un nuovo terrorismo filo-palestinese, incontrai, insieme alla presidente della Conferenza dei rettori, un alto rappresentante dei nostri sistemi di sicurezza. Come è tipico di chi fa la professione della ricerca, volevamo capire come davvero stessero le cose, al di là di ogni strumentalizzazione. La domanda era urgente e seria, e non ammetteva tramiti politici: era vero o non era vero che un simile rischio fosse concretamente presente? La risposta fu del tutto rassicurante: no, quel rischio non c’era. O meglio rassicurante sulla realtà, molto meno sull’interessato allarmismo politico e mediatico. Non avevo mai riferito in pubblico questo episodio, ma ora è doveroso farlo: ora che apprendiamo la sconcertante notizia dell’inserimento di agenti di polizia in associazioni e collettivi studenteschi, e in un partito politico ad essi prossimo. Non si tratta, pare, di infiltrazioni classiche (che prevedono, ovviamente, un falso nome per gli infiltrati, mentre qua sembra che i giovani agenti si presentassero con le generalità autentiche) ma comunque sempre di un’operazione analoga. La domanda è, a questo punto, inevitabile e grave: la situazione è così cambiata, dall’aprile 2024 ad oggi, da lasciar pensare che nei nostri collettivi universitari alligni un nuovo terrorismo? Nessuno ha il coraggio di sostenere, e quindi di documentare, una simile tesi. E allora, cosa ha spinto la Polizia e gli Interni a dare il via ad una operazione che evidentemente viola la libertà di associazione, quella di espressione e l’autonomia delle università, tutti valori costituzionalmente protetti?

E ancora: si è scelta forse questa singolare forma di infiltrazione ‘a viso aperto’ per non passare attraverso il vaglio dell’autorità giudiziaria? Un’ipotesi, questa, gravissima. Che farebbe pensare non alla volontà di garantire sicurezza, ma invece a quella di controllare le opinioni, in un “sorvegliare e punire” che fa ben capire come sia in corso (in tutto l’Occidente) una vasta campagna di disciplinamento delle comunità accademiche. Come infatti notano, in un documento, i Collettivi Autorganizzati Universitari e Cambiare rotta, “questi episodi non sono dei casi isolati, ma rientrano all’interno di un più generale clima di censura e repressione: negli ultimi anni, infatti, abbiamo assistito a svariati casi di violenza poliziesca, provvedimenti repressivi, casi di intimidazione, divieto di svolgimento di iniziative politiche e culturali, gravi episodi di censura alla libertà di insegnamento e di ricerca”. Tutto questo non dice qualcosa solo sul nostro governo – imperniato su un partito ancora ‘serenamente’ fascista, e dunque naturaliter liberticida –, ma anche sull’idea di università che alberga nella testa della nostra classe dirigente. Lo ‘scandalo’ all’origine di questa inaudita stretta repressiva è infatti l’impegno di studentesse e studenti contro il genocidio del popolo Palestinese: un impegno che ci ha ricordato che cosa sia (cosa dovrebbe essere), veramente, l’università. E cioè non un luogo di perpetuazione del mondo com’è, ma un laboratorio di insorgenza critica che forgi strumenti per cambiarlo, il mondo. E, del resto, non sono le stesse ragazze e gli stessi ragazzi che pochi anni fa, quando erano ancora a scuola, hanno cominciato a ricordarci, con tutta la loro forza, che potrebbero essere l’ultima generazione, a causa del disastro climatico (in questi giorni visibile anche a chi proprio non vuole vedere…) perpetrato da una minoranza assetata di profitto? “Fate chiasso”, aveva detto loro papa Francesco: esattamente ciò che dovrebbe dire loro un’università che voglia ancora pensare se stessa come la sede naturale del pensiero critico.

In altri termini, l’infiltrazione della polizia di Stato nei collettivi studenteschi ha ufficialmente lo scopo di prevenire eventuali derive violente o addirittura terroristiche, ma sostanzialmente serve invece a intimidire lo sviluppo della più autentica missione dell’università, cioè quella di costruire pensiero critico. Un grande liberale come Luigi Einaudi scriveva, nel 1910, che “Lo Stato stipendia i professori non perché gli siano fedeli politicamente, ma perché insegnino quella che essi, e soltanto essi, ritengono la verità … L’unica guarentigia del progresso scientifico sta nella assoluta libertà, anche nella libertà, nel campo del pensiero, della ribellione a tutti i principi universalmente accolti ed a tutte le istituzioni esistenti”. Se l’università funziona, se l’università è se stessa, allora i suoi studenti e le sue studentesse non possono che essere intellettualmente e politicamente ribelli (in modo del tutto nonviolento, sia ben chiaro): e lo Stato (e in mondo tutto speciale il suo governo, e ancor più la sua polizia) devono fare solo una cosa, tenersi più alla larga possibile da questo laboratorio di libertà.

 

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