Giotto, Delacroix e Picasso: arte e genocidi, come a Gaza

di Tomaso Montanari - Ilfattoquotidiano.it - 28/07/2025
Le immagini reali sono così forti che non riusciamo più a guardarle. E allora la nostra memoria fa riemergere le opere e i quadri che hanno descritto l’abominio

Gaza è la “cosa” più sconvolgente attraversata dalla mia generazione. Un paese alleato del nostro (“una democrazia, sostiene la propaganda colonialista occidentale) vi compie un genocidio: indisturbato, uccidendo per ferro e per fame centinaia di migliaia di persone. E senza nascondere nulla, mentre le vittime ci scrivono lettere e messaggi, in una presa diretta dall’orrore senza precedenti. Ingenuo, avevo sempre pensato che se il mondo avesse visto cosa succedeva ad Auschwitz, sarebbe insorto, spazzando via il nazismo. Ebbene, mi sbagliavo: noi vediamo ripetersi ciò che accadde al Ghetto di Varsavia, e non smettiamo nemmeno di vendere armi agli aguzzini. Vediamo cose indicibili: corpi di bambini straziati, neonati scheletrici morti di fame, vecchi che cadono a terra stecchiti. E mangiamo e beviamo, e dormiamo, e lavoriamo: e nulla ci fa insorgere. E allora le parole suonano usurate, vuote, inadeguate. E le immagini, nella loro crudissima, estrema, realtà sono talmente forti da non essere più “visibili”. Proprio come non si riesce a guardare la fonte stessa della luce, il sole, così anche per questo sole nero, per questo buco nero che tutto inghiotte.

E così, in questi giorni atroci, la mente si affolla di tutte le opere d’arte cui abbiamo affidato, lungo secoli, la mediazione visiva dell’orrore più estremo. A partire dalla strage degli innocenti, vero paradigma di ciò che accade a Gaza dopo il maledetto 7 ottobre (che non è certo una data iniziale, ripetiamolo: ma il grano di un rosario di orrori nel quale a Israele spetta un terribile primato). Tra tutte le sue rappresentazioni, torna ossessivamente davanti agli occhi quella di Giotto alla Cappella degli Scrovegni a Padova (1303-05): a causa, forse, di quel cumulo osceno di corpi di bambini, ammassati in primo piano, tra i soldati (comandati da un Erode chiuso nel palazzo del potere) e le madri. Con Giotto il corpo tornava protagonista della storia dell’arte, e rivolta le viscere l’esattezza con cui quel grumo di piccoli cadaveri è rappresentato: in un corto circuito ineludibile con i più crudi video che in questi giorni ci piovono addosso da Gaza, dove i corpi di bambini uccisi si ammassano sui pickup.

E poi, con un salto di cinque secoli, il Massacro di Chio di Eugène Delacroix (1824, al Louvre), che rappresenta lo sterminio degli abitanti greci dell’isola di Chio compiuto dall’esercito ottomano nel 1823 (ventimila morti). Il titolo con cui l’opera fu presentata al Salon del 25 agosto 1824 è Scene del massacro di Chio: famiglie greche che aspettano la morte o la schiavitù. Ed è proprio il ritratto dell’attesa della fine ad essere sconvolgentemente aderente alla Gaza di queste ultime ore. Dopo l’arrivo di Aya Ashour in Italia, ricevo ogni giorno strazianti richieste di aiuto dalla Striscia: tessute di dignità, umanità, consapevolezza. In una si legge: “Proprio la settimana scorsa, nella strada in cui vivo è avvenuta una strage. Ho visto i miei vicini a pezzi sul pavimento. La morte era così vicina. Due giorni dopo, ho perso due bambini della mia famiglia allargata mentre cercavano di andare a prendere l’acqua potabile.

Qui, se non si muore per le bombe, si muore lentamente di fame”. Chi può leggere queste parole senza urlare di impotenza e di rabbia? Chi potrebbe salvare le donne e gli uomini in balia del cavaliere armato al centro del quadro? Chi può salvare la donna che mi ha scritto quelle parole? Delacroix non si interroga sull’umanità del cavaliere ottomano, che è solo una maschera del male. Nemmeno Picasso lo fa, nel suo Massacro in Corea, del 1951 (al Musée Picasso, a Parigi). Egli rappresenta l’eccidio di Sinchon (1950), dove l’esercito sudcoreano e quello statunitense eliminarono 35.000 persone: i soldati sono automi ubbidienti, maschi armati che compiono senza fiatare l’esecuzione di massa di donne e bambini nudi. E questo non può che farci pensare ai soldati israeliani dell’IDF (acronimo di pura propaganda, dove la ‘d’ di ‘difensivo’ andrebbe sostituita dalla ‘o’ di ‘offensivo’…): cosa diranno costoro alla “Norimberga” che pure prima o poi li dovrà processare? Varrà dire “ho obbedito”? Non lo credo: come non valeva ad Auschwitz. Nel quadro di Picasso i volti dei soldati-carnefici sono nascosti da elmi strani: non hanno né tempo né volto. Perché negano la propria umanità, affogano il loro libero arbitrio. Ma anche perché rappresentano pure i loro capi politici, gli alleati dei loro paesi, i concittadini e le concittadine che non insorsero contro i massacri perpetrati in loro nome. E allora nei ceffi malvagi dei soldati giotteschi di Erode, in quello insensibile del cavaliere turco, sotto gli elmi del plotone di esecuzione di Picasso vediamo anche le facce di Trump, Merz, Macron, Meloni, Salvini… e infine il nostro, se non facciamo di tutto per spezzare l’attesa di morte che grava su un popolo intero. Nessuno potrà perdonare noi occidentali, se non ci strappiamo di dosso quegli elmi. Se non fermiamo Israele, stato genocida.

Quadro guerra montanari.jpg 

Pablo Picasso, Il massacro in Corea, 1951 Olio su tavola, Musée Picasso, Parigi

Questo articolo parla di:

archiviato sotto: ,