Come era prevedibile la scuola non ha retto alla seconda durissima ondata autunnale di Covid-19. Nonostante i distanziamenti fisici, le mascherine, gli orari di ingresso e di uscita differenziati, i banchi con le rotelle e i flaconi di igienizzante dislocati ovunque, dalle aule ai corridoi, il nuovo lockdown all’italiana, quello del semaforo regionale rosso, arancione e giallo, ha travolto le scuole italiane. Le superiori di secondo grado sono tornate ovunque alla didattica in remoto, le scuole medie, con l’eccezione delle classi prime, sono in modalità on line in quasi tutta Italia, mentre rimangono aperte in molte regioni le scuole primarie e le scuole dell’infanzia. E vista la crescita dei contagi, chissà per quanto poco tempo ancora.
Troppo si è tagliato e poco o nulla si è investito negli ultimi decenni per la qualità e sicurezza del sistema scolastico italiano: una scuola così depauperata non era oggettivamente in grado di contrastare o perlomeno limitare l’impatto di una pandemia virale così aggressiva. L’eccezionale violenza del Covid ha infatti messo a nudo il re, smascherando le mancanze strutturali del sistema scolastico italiano: dagli edifici angusti ai trasporti per studenti inadeguati, dal reclutamento del personale al numero di allievi per classe. Per ridurre i contagi e i malati, alla fine, è stato necessario chiudere gran parte degli istituti e rifugiarsi nella didattica a distanza.
l secondo lockdown, atteso ma sottovalutato, ha generato la fondata convinzione e la legittima paura che tale situazione possa durare molto a lungo e soprattutto che in futuro altre pandemie possano ripetersi con maggiore frequenza. Il tempo dell’andrà tutto bene appartiene ormai al passato remoto. E ciò pone le comunità politiche di fronte a un tragico dilemma, che non dovrebbe sussistere in una democrazia avanzata: dover scegliere tra il diritto allo studio e il diritto alla salute, oppure tra il diritto al lavoro e al diritto alla salute. Detto che quest’ultima è il bene primario, è altrettanto evidente che tali bivi sono dei veri e propri ricatti soprattutto per le classi sociali economicamente più deboli e per le nazioni più povere. Il rischio concreto è di finire in un labirinto da cui non si riesce a uscire.
Cosa si poteva fare per la scuola e non si è fatto, sia negli anni precedenti sia in questi mesi estivi, vissuti con immotivato ottimismo, va certamente ricordato con forza e lucidità critica, ma ormai rappresenta un passato immodificabile. La drammatica e distopica realtà in cui siamo precipitati richiede di elaborare delle soluzioni che ridiano slancio e forza vitale a un sistema scolastico sempre più in crisi di identità, in cui il diritto alla studio rischia di naufragare e con esso quelle poche speranze di mobilità e riscossa sociale e di genere che passano attraverso l’istruzione pubblica. Per questo la domanda politica impellente diventa oggi più che mai: e ora cosa fare? Ecco alcune proposte e riflessioni per continuare a discutere e agire.
Innanzitutto dobbiamo prendere atto che la scuola a distanza (tralasciando l’ipocrisia dell’aggettivo integrata – integrata a che cosa?) ha ben poco a che fare con una scuola democratica. Essa, infatti, riduce i processi di inclusione, aumenta le disparità tra ricchi e poveri, acuisce il disagio di chi vive in famiglie attraversate da problemi e marginalizza chi è culturalmente più debole. Inoltre, accresce la passività degli studenti, crea assuefazione tecnologica, muta ancor più il docente in un compilatore di form e in un somministratore di materiali digitali e test, oltre a trasformare le scuole in luoghi in cui le grandi multinazionali globali dell’high tech realizzano ingenti profitti, vendendo contratti e accumulando dati, nonostante i regolamenti sulla privacy.
Certamente se oggi non avessimo questo strumento la situazione sarebbe peggiore, ma quello che si profila all’orizzonte è uno scenario ricco di grigie nubi cariche di pioggia. La didattica a distanza sta aiutando i sistemi di istruzione in un momento di emergenza, ma il rischio di trasformarla, in un futuro prossimo al presente, da una modalità didattica extra-ordinaria o da una risorsa per ampliare e arricchire l’offerta formativa a una pratica didattica sempre più ordinaria per supplire alle carenze croniche della scuola o per ridurre la partecipazione democratica è reale ed estremamente pericoloso. Perché un conto è fare una riunione di dipartimento attraverso una call, un altro è fare a distanza un collegio docenti, organo in cui si misura la vita democratica di una scuola e in cui è fondamentale avere tempi e spazi per poter discutere, confrontarsi e decidere. Incontrarsi on line per incontri di lavoro o di studio quando si è a centinaia o migliaia di chilometri di distanza rappresenta un oggettivo miglioramento delle opportunità e condizioni lavorative e di studio, ma cosa ben diversa è costruire un percorso educativo e formativo in una classe virtuale, in assenza o quasi di empatia, di sguardi, di emozioni e di relazione, composta da bambini e adolescenti.
Il punto di partenza, per il presente e per il futuro, deve pertanto essere la centralità della scuola come luogo fisico di crescita umana, culturale e sociale. La scuola, in un mondo in cui tutto è privato e mercificato, è un bene pubblico e politico essenziale da difendere con le unghie e con i denti in quanto rappresenta uno degli ultimi spazi in cui provare a trasformare i principi costituzionali di uguaglianza, solidarietà ed emancipazione da dichiarazioni formali a pratiche sostanziali e condizioni reali. La scuola in remoto è un non luogo anonimo, un luogo in cui soprattutto le allieve e gli allievi più giovani rischiano di cadere nell’apatia, senza poter sviluppare le molte intelligenze di cui sono potenzialmente dotati. La didattica a distanza non è certamente il principale dei problemi, ma non è neanche la soluzione per il futuro della scuola.
Inoltre, il secondo lockdown ha evidenziato ancor di più, come se ve ne fosse bisogno, l’inadeguatezza di gran parte della classe politica italiana, divisa su tutto, incapace di dialogare, di prendere decisioni con unità di intenti e soprattutto di immaginare un progetto complessivo di società giusta da provare a costruire. Governo rissoso e confuso, opposizione demagogicamente urlatrice e in permanente campagna elettorale, presidenti di regione smaniosi di visibilità mediatica e in polemica con tutto e tutti, Confindustria che vuole approfittare della crisi per abbassare ancora di più il costo del lavoro e dunque i salari, dirigenti pubblici incompetenti che pensano alla loro carriera, imprenditori e politici che speculano o addirittura prendono tangenti per materiali sanitari, medici e infermieri lasciati da soli, cinema, teatri e cultura in grandissima sofferenza: siamo di fronte a un quadro desolante, in cui la scuola sembra abbandonata al proprio triste destino, sempre in bilico tra essere un inutile parcheggio o un’arida azienda privatizzata. Ciò rende indispensabile uscire dal torpore e dare vita a una grande mobilitazione della parte più sana e lungimirante della società civile a sostegno di un profondo rinnovamento dell’istruzione pubblica. Basta lamentarsi. Bisogna chiedere a gran voce ingenti investimenti e progetti per edifici, laboratori, mense, aree verdi, palestre, aule e supporti informatici. La scuola è lo scheletro di una società; se lo scheletro è sano e robusto la società tutta sarà più sana e robusta.
Infine, è giunta l’ora di organizzare dal basso gli Stati generali della Scuola, in cui gettare le basi di una riforma e di un potenziamento del sistema di istruzione nazionale, che sia in grado di garantire il diritto allo studio anche in una società sempre più liquida, spaventata e fragile. Urge gettare le basi per una scuola che sappia vivere e prosperare anche in presenza di crisi sanitarie. Il coronavirus è una campana che suona per tutti coloro che hanno a cuore la sopravvivenza della scuola pubblica democratica nei fatti, dopo decenni di tagli economici e umiliazioni politiche. Ma non è e non sarà facile. La crisi del Covid, infatti, lungi dal produrre solidarietà sociale e una visione alta di riformismo politico progressista, sta alimentando frammentazioni, individualismo, cinismo e lotte di tutti contro tutti: tra ricchi per diventare ancora più ricchi, tra poveri per sopravvivere e soprattutto dei ricchi contro i poveri per continuare a rimanere ricchi, attraverso l’accumulo di profitto, l’accentramento del potere e la marginalizzazione dei più deboli. In questa prospettiva la scuola non è percepita come un luogo aggregante e di crescita individuale e collettiva, bensì è letta e vissuta come l’ennesima questione privata che riguarda le singole vite, la singole giornate e i singoli interessi. Così non vi è futuro per la scuola.
Per uscire da questa situazione bisogna contrapporre alla scuola dei tanti individualismi una scuola pubblica intesa come comunità educante, come luogo di uguaglianza di diritti e doveri, di crescita nella differenza e nel rispetto reciproco.
Gli Stati generali dal basso dovranno essere aperti e plurali e dovranno coinvolgere rappresentanti di insegnanti, di studenti, di presidi, di personale tecnico-amministrativo, di genitori, del mondo universitario scientifico e umanistico e della cultura. L’obiettivo deve essere quello di pensare e immaginare la scuola italiana per i prossimi vent’anni: programmi, didattica, metodologie, processi decisionali, spazi, valutazione, formazione e reclutamento dei docenti, edifici, borse di studio, aperture delle scuole al pomeriggio, protagonismo studentesco, raccordo tra i vari gradi di istruzione. Occorre aprire un dibattito nazionale che non sia il solito teatrino convocato dai vertici ministeriali. Per far questo servono però uomini e donne di buona volontà dotati di una visione di mondo che non sia solo amministrare l’esistente, senza prendere rischi, nella più grigia obbedienza a regole che stanno trasformando la scuola in luogo senza anima, in uno spazio di emozioni tristi e di dittatura della burocrazia degna del Processo di Kafka o di Brazil di Terry Gilliam. Attiviamoci.