Nell’epoca di una narrazione forzata, nella quale nemmeno un ragionamento leggermente critico è ammesso senza reazioni stizzite, la cultura finisce per non trovare spazio. Perché la cultura costringe a guardare il mondo e il tempo nella sua essenza, spogliandoli di tutte le paure, gli orrori, la rabbia, esorcizzando ciò che ossessiona il quotidiano e rendendolo arte, emozione, speranza. La cultura ai tempi del Covid è come la cultura prima del Covid: non essenziale secondo chi governa. In questo Paese, purtroppo, è così, ci si scopre attenti al tessuto culturale solo quando non dà fastidio, solo quando può servire per una serata di gala, per una passerella con l’abito nuovo. Per tutto il resto c’è il silenzio, c’è la disattenzione, ci sono i tagli, i cinema che chiudono, i teatri in difficoltà, artisti, musicisti, attori, attrici, danzatrici, danzatori, maestranze che vanno avanti nella precarietà di un Paese che non investe in cultura da anni.
Questa è l’Italia, la stessa che, dopo mesi di chiusura, ha chiesto sacrifici a tutti, ancor di più a un settore che ha provato a non fermare mai la sua creatività durante il lockdown, trasformando spesso i balconi e il web in palcoscenici attraverso i quali offrire gratuitamente arte, pensiero, gioia, coraggio. Lo stesso coraggio che ha spinto teatri, cinema, sale da concerto ad adeguare i propri spazi, a provvedere a tutto ciò che serviva per rendere difficili o quasi impossibili i contagi. E siccome coloro che hanno cultura hanno capacità e intelligenza e da sempre sanno lavorare in condizioni complesse pur di andare avanti, ci sono riusciti, sono stati bravi, hanno ripreso a fare il proprio lavoro, seppur con numeri ridotti e minori guadagni, in perdita persino, con la passione per quello che prima che un lavoro è una missione sociale e culturale.
Ci sono riusciti e, per tutto il periodo che dal lockdown ha portato alla seconda ondata, hanno registrato pochissimi contagi. Non decine come nel mondo del calcio, non decine come nelle aree della movida, nelle feste private, nei supermercati, nelle navi da crociera, in certe attività di ristorazione. Ma molti meno, che però sono bastati a decretare la chiusura di cinema, teatri, sale da concerto. Che per questo governo, ma è meglio dire per la politica in genere, non sono cultura, non hanno lo stesso valore dei musei, che invece restano aperti. Non sono nemmeno luoghi di svago o di spiritualità, non hanno lo stesso valore dei centri commerciali o delle chiese, che per chi scrive i DPCM sono molto più importanti e meno rischiosi, malgrado i numeri dei contagi siano certamente superiori alle cifre bassissime che ancora rimbombano rabbiosamente nella testa di chi ha dovuto serrare le porte e chiudere i sipari.
D’altra parte, siamo il Paese che ha Franceschini come ministro della Cultura. Un ministro che invece di difendere la cultura la attacca, permettendosi di rispondere con arroganza a chi giustamente si chiedeva perché chiudere luoghi che hanno dimostrato di essere sicuri e, soprattutto, luoghi e attività che in momenti come questi hanno una funzione ancora più importante. “Chi si lamenta per cinema e teatri non capisce la gravità della situazione”, aveva detto il ministro. Una risposta dura, sbattuta in faccia a chi invece ha capito benissimo la situazione, adoperandosi per mettere in sicurezza la salute delle persone e, al contempo, per occuparsi di curarne l’anima, il morale, la psiche, tutti elementi che la salute la influenzano eccome. Ma cosa ne sa Franceschini? Cosa ne sanno un governo e una politica che da anni ritengono non essenziale l’attività di cinema, musica e teatri?
Non basta la risposta più gentile di Conte, non basta dire che la chiusura è necessaria per evitare la circolazione delle persone fuori dalle proprie case. Perché quella stessa circolazione è consentita a chi va in chiesa, al centro commerciale, a fare compere nei negozi o andare al bar la mattina o al ristorante a pranzo. Nel Paese in cui “con la cultura non si mangia”, il cibo, l’ostia e l’ultimo pantalone alla moda hanno evidentemente la precedenza. Eppure basterebbe poco, basterebbe guardare indietro, illuminare con una torcia gli angoli bui del passato recente e meno recente. Basterebbe pensare che il teatro, ad esempio, c’è sempre stato, ha accompagnato l’essere umano sin dall’antichità, perfino durante le guerre sanguinose, rimanendo aperto per coprire il rumore vivo delle bombe e il rosso acceso del sangue o quello grigio dell’orrore. Basterebbe anche meno, semplicemente osservando i mesi del lockdown, quando i balconi erano popolati di canti, recitazioni, proiezioni, come antidoto al dolore, alla paura, all’ansia, alla depressione, come angolo di sopravvivenza necessario quanto le cure e i vaccini.
Proprio così. la cultura è un vaccino, ha la stessa urgenza, perché ferma i virus che minacciano l’anima, curano ciò che nessuna medicina può curare. Questo Paese ne ha bisogno, come ne aveva bisogno prima della pandemia. Ha bisogno di artisti, autori e autrici, attori, attrici, registe, registi, musicisti, ballerini, ballerine, coreografi, scenografi, coreografi, ecc., come ha bisogno di dare stabilità alle tante maestranze che rendono possibile la sopravvivenza del teatro. Ha bisogno di teatri e cinema aperti, di sostenere film di valore, di rilanciare il cinema e di riconoscere al teatro il suo ruolo di educazione alla democrazia, alla verità e al sapere. Un sapere molto più profondo di quello scientifico. Un sapere che va oltre. Sicuramente oltre un DPCM imposto senza alcun dialogo, nella triste consuetudine di una nazione che con la cultura non dialoga mai abbastanza. Un’indifferenza alla quale si assiste quotidianamente, virus o non virus. Il governo ci ripensi. Ci restituisca la cultura, perché ne abbiamo bisogno. Per non ammalarci ancora di più.
Massimiliano Perna -ilmegafono.org