Alcune mattine fa Gad Lerner, conduttore della rassegna stampa di Radio Tre, Prima Pagina, rispondendo a una ascoltatrice che aveva sollevato il problema dei femminicidi sempre più frequenti, ha affermato che non serve aumentare le pene, ma che gli uomini facciano autocoscienza, che si interroghino su ciò che ha significato per loro la virilità. Accostata alle recenti manifestazioni che ci sono state in varie città d’Italia, promosse da gruppi maschili con lo slogan “la violenza contro le donne ci riguarda”, ho pensato che era il segno di una svolta augurabile, il riconoscimento che il patriarcato, pur godendo dei privilegi del sesso vincitore, aveva trasmesso di generazione in generazione a uomini e donne modelli considerati “naturali” e quindi fuori da ogni possibile scelta.
Quelli che oggi chiamiamo “stereotipi di genere”, se li guardiamo più profondamente, ci accorgiamo che non si tratta di “differenze”, ma di un processo sempre in atto di “differenziazione”, la spaccatura che ha diviso, contrapposto nella loro complementarità, parti inscindibili dell’umano, come il corpo e il pensiero, la ragione e i sentimenti, la biologia e la storia, e che perciò stesso tende alla loro riunificazione. Femminilità e virilità parlano di rapporti e di gerarchie di potere, di sfruttamento e di violenza, ma è innegabile che ritornano, sotto un altro aspetto, come i volti di quel desiderio di unità, appartenenza intima, che è il sogno d’amore:
“il miracolo che di due esseri complementari fa un solo essere armonioso” (Sibilla Aleramo).
L’uscita dal due in uno della nascita, dal momento che la donna è stata confinata nel ruolo materno, non poteva far incontrare due singolarità incarnate, ma le figure dell’origine in posizioni capovolte. Anche quando è diventato il padre di se stesso l’uomo, che celebra nella sessualità penetrativa la “vittoria sul trauma della nascita” (Sàndor Ferenczi), non può dire di aver reciso il cordone ombelicale, la dipendenza che nell’infanzia lo ha visto inerme affidato al corpo con cui è stato tutt’uno, e da cui ancora teme immaginariamente di poter essere riassorbito.
Di questa ambiguità delle figure di genere, strette dentro logiche di desiderio e di paura, di amore e di odio, di vita e di morte, a dare conto è stata finora la pratica che il femminismo ha chiamato “autocoscienza”: un pensiero e una parola spinti fin dentro le acque insondate della persona, ai confini tra inconscio e coscienza, tanto da portare allo scoperto vissuti che sfuggono alle costruzioni teoriche e al discorso politico tradizionalmente inteso, o che restano “impresentabili”.
Nei rari casi in cui sono stati uomini a vincere, nelle loro scritture, la ritrosia a parlare di sé, a esporre sentimenti, fantasie, ritenute “naturali” inclinazioni femminili, non sono mancate voci critiche anche nel femminismo. Il vissuto di un figlio, l’intreccio di sentimenti opposti di amore e odio, tenerezza e violenza, affidamento e autonomia, destano comprensibilmente inquietudini nella donna che, suo malgrado, ha fatta propria come portato “naturale” la maternità: madre sempre e comunque, che abbia o non abbia avuto figli. Se è stato storicamente lo sguardo dell’uomo, l’ideologia del patriarcato, a identificarla con la sessualità e la maternità, è nell’immaginario di un figlio maschio che prende corpo negli anni dell’infanzia e della adolescenza una relazione destinata a prolungarsi nella vita amorosa adulta, con tutte le sue contraddizioni e ambivalenze.
“L’ossessione era sempre quella dell’identità maschile: confonderla e riavvicinarla a quella dell’altro sesso (capelli, orecchini eccetera) o al contrario credere di custodirla a colpi di forbici (…) Vedono la femminilità come una infezione, temono di esserne contaminati, custodiscono la virilità come un sistema chiuso, compatto, impermeabile alle mollezze che il contatto con il femminile evoca e provoca (…) Nella prima esperienza, abbracciati a una donna, ai ragazzi manca il respiro, si sentono soffocare, intrappolati. Altro che possedere, conquistare, dominare! Un uomo si sente avviluppato dalle spire, avvinghiato dai tentacoli, sepolto nella cedevolezza delle forme di un corpo femminile, e quando entra dentro di lei è come se fosse entrato nella tomba. Con immenso piacere e sgomento, la sconcertante novità della morbidezza” (Edoardo Albinati, La scuola cattolica, Rizzoli 2016).
Settant’anni prima, nel 1946, Franco Matacotta, il giovane poeta marchigiano, ultimo amore di una Sibilla Aleramo che si scopriva “madre-amante”, descrive la sua formazione di adolescente con parole e immagini molto simili.
“Mia madre! Essa lo era stata quando un minuscolo grumo di sangue attendeva nel suo grembo d’essere chiamato alla luce. Allora essa m’aveva posseduto, io ero stato tutt’uno con le sue viscere. Ora mi pareva che tra me e lei il rapporto fosse come tra l’acqua e le viscere della montagna. L’acqua se ne fugge, corre lontana. E io, perché dovevo continuare ad appartenere a mia madre? (…) Si amavano i miei genitori? Quelle braccia della mamma ch’io m’era rappresentato naturalmente protese verso il babbo, le sentivo invece deviate da non so qual vento nemico verso di me. Braccia. Bramose di offrirsi, di sacrificarsi, perennemente sollevate nell’atmosfera elettrica della casa: braccia senza corpo, senza volto, con quel loro gesto concavo delle mani sempre vuote. Perché quella curva terribile, nel gesto d’amore? Essa chiama, stringe, diviene cerchio e spira”. (Franco Matacotta, La lepre bianca, ristampato da Feltrinelli, 1982).
Figlia femmina, cresciuta per vent’anni in una famiglia contadina, dove i maltrattamenti riguardo alle donne sembravano far tutt’uno con la povertà e la fatica del lavoro dei campi, neppure il privilegio di aver potuto frequentare un buon liceo di provincia mi ha permesso allora di districare il perverso annodamento tra la debolezza e la violenza paterna, la vitalità prorompente di mia madre e la sua sottomissione. Ma, soprattutto, avendo potuto percorrere le strade riservate di solito al figlio maschio – lo studio, la fuga verso la grande città, l’impegno politico – non mi è stato difficile, con la consapevolezza che mi è venuta in seguito dal femminismo, rendermi conto di quanto la visione maschile del mondo – la “fuga dal femminile”, il desiderio e la paura di una possessività materna, sia pure legata agli affetti più che al potere – avesse messo radici profonde anche nella memoria del mio corpo. “Non c’è rivoluzione senza la liberazione delle donne”, scrivevamo nei volantini degli anni Settanta. Oggi direi “Non c’è liberazione senza una rivoluzione della coscienza maschile”. Se invece pensiamo che le donne siano “innocenti”, toccate dal patriarcato solo come vittime, e gli uomini malvagi “per natura”, allora non resta che chiederci perché continuiamo a mettere al mondo dei mostri.