Mentre me ne tornavo dal corteo, stringevo forte il garofano rosso tra le mani. Ero incupita, forse qualche lacrima mi è pure scappata. Avendo molti lustri sulle spalle, mi è diventato insopportabile assistere allo scempio che è stato fatto della forza e della conflittualità del mondo del lavoro.
A una cinquantina di metri dalla piazza in cui i sindacalisti di turno raccontavano qualche amenità, un cantiere edile era in piena attività. La betoniera funzionava a ritmo serrato e le voci degli operai si rincorrevano attorno al mezzogiorno del Primo maggio. Qualche commessa, mentre passava il corteo, si affacciava da dietro le vetrine, tra l’incredulo e lo stupito, mentre serviva ai tavoli. A che serve tutto questo, si sarà chiesta? Se io sono precaria, ho un contratto a termine, non ho un orario di lavoro? E imprigionata dentro il senso dell’impotenza sua, meditando sulla soverchiante forza del sistema, è ritornata a servire, pulire e subire.
D’altro canto non c’era proprio nessuno al corteo quest’oggi. Non c’erano giovani, né precari, né migranti. Ma nemmeno c’erano i disoccupati, i licenziati, i lavoratori delle fabbriche in crisi, né quelli delle aziende che delocalizzano, né i lavoratori della logistica, né quelli della lavorazione delle carni, o delle finte cooperative. Non c’era nessuno di quel mondo invisibilizzato, frantumato, abbandonato alla peggior legislazione sul lavoro, mai davvero contrastata.
Non c’erano nemmeno gli striscioni delle fabbriche presenti sul territorio, quelle le cui maestranze cercano di contendere alla classe padronale diritti e tutele.
C’erano un po’ di funzionari sindacali (neanche tutti), senza palco, sotto i Portici del grano, per evitare qualche goccia di pioggia. Non c’erano striscioni, né parole d’ordine, né slogan urlati.
In quella piazza si sono appalesate per un attimo come fantasmi le intese con la classe padronale, le scelte di moderazione salariale, quelle della flessibilità del lavoro, il via libera ai licenziamenti, quando le aziende non possono fare diversamente (!!!), la politica dei sacrifici.
Il nostro futuro i sindacati confederali se lo sono giocato, auspicando gli investimenti del capitale straniero, coltivando illusioni sulla classe dirigente di questo paese, mettendosi al suo servizio, aiutandola ad uscire dalle sue “crisi”, che non finiscono mai, sebbene prosciughi risorse pubbliche dallo stato e dagli EEPP, metta in cassa integrazione, licenzi, delocalizzi, costringa milioni di persone a vivere nella più penosa precarietà.
Bonomi l’ha detto a chiare lettere: “occorre riconoscere che si iniziano a vedere i risultati di quel lungo percorso di valorizzazione dell’approccio partecipativo e non conflittuale che ha visto impegnate tanto le parti sociali, quanto il legislatore”.
I risultati di questo “approccio non conflittuale” delle centrali sindacali sono quelli che ci hanno portato attraverso decenni di cedimenti esattamente qui, a soffocare la capacità del mondo del lavoro di combattere contro un sistema economico produttivo che è all’origine di ogni sofferenza a livello planetario, dalle guerre, alle migrazioni, all’ingiustizia climatica, allo sfruttamento neo-coloniale.
Senza la lotta del variegato mondo del lavoro non riusciremo a fermare né guerre, né miseria, né sfruttamento. È bene che ci riappropriamo di questa consapevolezza.
Io, che ho appunto molti lustri sulle spalle, li ho visti gli operai negli anni ’60, sul punto di “rovesciare il mondo”. Ho partecipato a manifestazioni in cui non riuscivo a vedere né l’inizio, né la fine, tanti erano e quanto erano determinati.
Mi hanno regalato l’idea che “un altro mondo è possibile”.
Dobbiamo riappropriarci di questa consapevolezza.
Cristina Quintavalla
Foto di Beppe Fontana