Quando il governo ha fissato la data del Referendum sul taglio dei parlamentari ha scelto tra le varie possibili la più prossima, il 29 marzo. Era evidente la sua intenzione di dare poco spazio all’informazione e al dibattito e di intascare facilmente un consenso, visto l’ampiezza dello schieramento politico e parlamentare a favore nell’ultima e decisiva votazione alla Camera dell’8 ottobre.
Ma le cose non stanno andando esattamente così. I Comitati per il No, sia a livello nazionale che soprattutto a livello locale stanno sorgendo come funghi, malgrado l’assenza di mezzi e il disinteresse dei mass-media. Solo da pochi giorni sono giunte le decisioni degli organismi preposti per la regolamentazione della campagna referendaria sui mezzi radiotelevisivi. Finora il messaggio dominante è stato quello legato alla retorica qualunquista e populista che individua nei parlamentari in quanto tali una casta da abbattere e nel parlamento un luogo di oziosi perditempo. Eppure, malgrado le potenti armi comunicative a disposizione, il fronte del Sì perde pezzi per strada. Non c’è da stupirsene. Non era difficile prevedere che non tutto l’elettorato del Pd e di Leu sarebbe stato disposto ad accettare senza colpo ferire il voltafaccia dei loro rappresentanti parlamentari che per tre volte hanno votato contro e alla quarta a favore. Sacrificando una parte della Costituzione per un accordo di governo. Cosa che in generale, non solo in questo caso specifico, non si dovrebbe mai fare.
Infatti vistose crepe si stanno aprendo nel presunto fronte del Sì. Sinistra Italiana del Piemonte si è apertamente schierata a favore del No. Nell’ultima direzione del Pd un ordine del giorno a favore del Sì è stato stoppato per l’opposizione di un gruppo di dirigenti capitanati dal capogruppo europeo Brando Benifei, sostenitore della libertà di voto nel referendum. Zingaretti ha replicato che bisogna essere coerenti. Lecito domandarsi se la coerenza va riferita al Pd che votava contro o a quello che ha votato a favore sullo stesso testo. Vedremo se la riunione del 22 febbraio scioglierà il nodo. Intanto venerdì le agenzie hanno dato notizia del costituirsi del “Comitato dei democratici per il NO” (www.democraticiperilno.it) che annovera tra i suoi promotori il senatore dem Tommaso Nannicini, il sindaco di Bergamo Giorgio Gori, altri noti parlamentari fra cui Gianni Pittella, consiglieri regionali, dirigenti e militanti del Pd, docenti universitari e attivisti del centrosinistra, anche di lungo corso, come Luigi Covatta. Il loro appello è esplicito “Questo taglio lineare – si legge – produrrà risparmi risibili e avrà effetti negativi sulla qualità della nostra democrazia…Interi territori (e gli italiani all’estero) saranno privati di propri rappresentanti in Parlamento … i parlamentari che resteranno saranno scelti dai vertici dei partiti … E’ il cedimento alla demagogia antiparlamentare di chi vede le istituzioni come inutili orpelli e punta a sostituire la democrazia rappresentativa con qualche piattaforma digitale privata.”
Intanto si attende il pronunciamento di grandi organizzazioni di massa, quali l’Anpi e l’Arci dove la discussione sul tema è cominciata da tempo, basta ricordare il giudizio critico che l’Anpi diede della modifica costituzionale il giorno stesso della sua quarta approvazione alla Camera. Insomma l’appuntamento referendario del 29 marzo è tutt’altro che “inutile e dispendioso” come ha incautamente dichiarato l’ex ministro Toninelli, vera tempra di democratico dallo sguardo lungo, come ben si sa.
La lotta è difficile, ma non appare più persa in partenza come si è cercato di fare credere. L’idea che le segreterie dei partiti oltre che manovrare i propri parlamentari potessero anche manipolare a piacimento le opinioni del corpo elettorale è anche questa volta revocata in forte dubbio.
Del resto il voto del 29 marzo conta. L’assenza di quorum nei referendum costituzionali, come in questo caso, fa sì che nessun voto andrà inutilmente disperso ma contribuirà a determinare l’entrata in vigore del taglio dei parlamentari e del parlamento, oppure a salvaguardare la norma costituzionale. Già nel 2006 e nel 2016 i cittadini italiani si espressero con larga maggioranza, superando persino un quorum non necessario, per respingere la modifica costituzionale di Berlusconi e poi di Renzi, che contenevano entrambe, insieme ad altre pessime cose, la drastica riduzione del numero dei parlamentari o la riduzione del Senato ad una cameretta di eletti di secondo grado. La posta in gioco non riguarda solo il numero dei componenti le camere, ma la possibilità di bloccare un progetto più ambizioso che vuole disarticolare l’impianto istituzionale fissato dalla nostra Costituzione. Mi riferisco ai disegni di autonomia differenziata delle regioni del Nord, Veneto, Lombardia ed Emilia che rappresentano una vera e propria “secessione dei ricchi” dal resto del Paese. Mi riferisco alla nuova legge elettorale che l’attuale maggioranza sta preparando. Una legge che prevede un’elevata soglia di sbarramento, il 5%, connessa con l’impossibilità dei cittadini di scegliere i candidati. Avremmo un parlamento più piccolo, formato da nominati dalle segreterie dei partiti, che violerebbe il principio di rappresentanza politica a favore di quello di una presunta governabilità.
In realtà i governi sono forti ed autorevoli quando si poggiano su un effettivo consenso politico che può essere garantito solo dalla effettiva rappresentatività del Parlamento. Ma le cose non si fermano qui. Matteo Renzi ha rilanciato, raccogliendo da terra una vecchia bandiera berlusconiana, la proposta dell’elezione popolare diretta del Presidente del Consiglio, che stravolgerebbe completamente l’impianto istituzionale democratico disegnato dai Costituenti e consegnato agli articoli dalla Costituzione.
Il 29 marzo ancora una volta il No è chiamato a difendere la democrazia e la Costituzione. Perciò sarà importante esserci e votare No.