Di Maio ci informa che il bonus ai parlamentari rafforza il senso del referendum sul taglio. Non a caso, molti sospettano un preciso disegno dietro le notizie filtrate dall’Inps, e il rifiuto di rendere pubblici i nomi.
Ancor più dopo il disco verde del garante privacy alla pubblicazione dei nomi, soprattutto perché i percettori non versano in condizioni di bisogno.
Era persino ovvio. Da quasi 40 anni (legge 441/1982) si può conoscere la situazione patrimoniale dei parlamentari. Il principio è stato poi esteso ai membri del governo e agli amministratori e consiglieri regionali e locali. Parallelamente, vi è consenso in dottrina sul punto che ai munus pubblici si colleghi una privacy in qualche misura affievolita. Inoltre, nella specie il dato sul benefit non può considerarsi sensibile.
Si aggiunga che ben due decreti legislativi si occupano di trasparenza (33/2013, 97/2016), di obblighi di pubblicità a carico delle amministrazioni e di accesso civico agli atti, richiamando anche un concetto di “trasparenza pubblica” per soggetti membri di organi di indirizzo politico, come appunto i parlamentari.
L’Inps poteva rendere subito noti i nomi in questione. Ma non l’ha fatto, né gli interessati sembrano propensi a manifestarsi. Si propongono due righe in un decreto-legge di passaggio. Ma se c’è un disegno dietro quel che accade l’ovvio può diventare improbabile. Invece, ci sono altri strumenti disponibili.
Per la legge 441/1982 il parlamentare dà alla camera di appartenenza una copia della dichiarazione dei redditi. La situazione patrimoniale del deputato è già in rete, ma presenta solo un quadro riassuntivo dei redditi dal quale non risulterebbe l’indicazione specifica del bonus percepito. Una modifica dovrebbe essere agevole, risolvendo il problema per il futuro, a partire dalla prossima dichiarazione dei redditi. Ma ora?
Il codice di condotta dei deputati (12 aprile 2016), è volto alla tutela dell’istituzione parlamento, e dispone una procedura ad hoc. Si può leggere nelle ampie formule del codice (in specie, articolo III) la richiesta di una dichiarazione immediata sul bonus. Il Codice dispone ancora, all’articolo VIII, che della mancata osservanza delle disposizioni «è dato annuncio all’Assemblea ed è assicurata la pubblicità sul sito internet della Camera dei deputati».
Quindi, qualunque cosa faccia l’Inps, esistono strumenti sufficienti per dare seguito alle censure e alla indignazione da tanti manifestate.
Per lasciare poi agli elettori la sanzione ultima nelle urne. La miserevole vicenda lascia comunque alcuni insegnamenti.
Il primo. Sarebbe sciocco pensare che nelle assemblee arrivino soltanto gli emuli di San Francesco e di Madre Teresa. È però importante che nell’ordinamento parlamentare esistano strumenti di trasparenza e di controllo. Non ve ne sono invece per gli autonomi, professionisti e imprenditori – quanti? – che possono aver usufruito nell’emergenza Covid di vantaggi magari legali ma sostanzialmente ingiustificati.
Il secondo. In parlamento – e più in generale per amministratori ed eletti – il problema non è il numero, ma la qualità. Si affronta anzitutto restituendo agli elettori il potere di scegliere davvero i propri rappresentanti, e togliendo alle gerarchie di partito quello di assicurare seggi e poltrone a sodali, amici, parenti, affini, clienti, finanziatori e simili. Il voto bloccato è la prima fonte di infezione. Sarebbe utile anche una solida legge sui partiti politici in attuazione dell’art. 49 della Costituzione. Il taglio dei parlamentari, invece, può solo togliere voce a parti importanti del territorio e a forze politiche consistenti. Un problema che verrebbe solo attenuato dai correttivi previsti nell’accordo di governo e rimasti poi inattuati, inclusa la legge elettorale proporzionale. Un danno ci sarebbe comunque. Tutto per il risparmio di un caffè all’anno per cittadino italiano.
Il sospetto di un disegno nell’affaire bonus si fonda sulla paura dei sostenitori del taglio causata dai cedimenti nel fronte del Sì, come Cuperlo su l’Espresso del 9 agosto. Scambiare la formazione di un governo con una riforma della Costituzione di grande portata, ma priva di serie motivazioni e anzi produttiva di sicuri danni nell’attuale contesto politico e istituzionale, è stato un errore. Che ora si può correggere votando No nel referendum di settembre.