Che dietro i nomi stia la sostanza delle cose e che ogni messaggio contenga al tempo stesso informazioni e suggestioni atte a convincere il destinatario sono cose ovvie da tempo. La prima attività dell’uomo è stata quella di dare il nome alla realtà circostante: a maggior ragione ciò vale per i concetti e le astrazioni tra i quali possono comprendersi gli istituti giuridici.
Nei prossimi 20 e 21 settembre il corpo elettorale sarà chiamato a pronunciarsi sulla riforma costituzionale che riduce il numero dei parlamentari. Nello spot informativo diffuso nel servizio pubblico radiotelevisivo si parla di «referendum popolare confermativo». Alla stessa maniera il referendum è qualificato nei decreti di indizione, mentre nel decreto legge che ha disposto l’abbinamento della consultazione referendaria con altre elezioni il referendum è definito solo «confermativo».
La Costituzione prevede che quando il parlamento approva una legge di riforma costituzionale a maggioranza assoluta dei suoi componenti, un quinto dei membri di ciascuna camera, cinque regioni o cinquecentomila elettori possono chiedere di sottoporre la riforma al voto dei cittadini, in maniera da trasferire su questi la decisione definitiva. I soggetti che promuovono il referendum sono – o dovrebbero essere – quelli che contrastano la riforma e per questo chiedono il trasferimento della decisione al corpo elettorale.
Nel disegno originario il referendum costituzionale ha, quindi, natura oppositiva. La legge di disciplina del referendum costituzionale (numero 352 del 1970) non qualifica affatto il referendum che si inserisce nel procedimento di revisione costituzionale. Niente è disposto nel testo unico sulla promulgazione e la pubblicazione degli atti normativi, (dpr 1092 del 1985). La mutazione genetica è avvenuta con la riforma costituzionale del 2001, quella che ha comportato l’aumento delle competenze regionali. Approvata la revisione a maggioranza di pochi voti, le stesse forze politiche che l’avevano voluta, intesero rafforzarla con il consenso popolare e chiesero referendum volto questa volta non ad opporsi alla riforma, ma appunto a sostenerla.
Il termine «confermativo» passò nel linguaggio politico e fu adoperato nel titolo dello stesso decreto presidenziale di indizione, 3 agosto 2001. Si ricorderà che quella legge fu votata dalla maggioranza di centro sinistra alla fine della legislatura, ma la fase referendaria fu gestita dal governo Berlusconi. Si deve a quel precedente il termine di «referendum popolare confermativo». Da lì l’espressione è stata mutuata per il referendum del 2006 sulla riforma costituzionale voluta da Berlusconi (decreto 28 aprile 2006: anche in questa occasione il termine «confermativo» si trova nel titolo del decreto) e poi per quello del 2016 sulla riforma Renzi (decreto 27 settembre 2016; questa volta le parole sono state riportate nel testo del decreto: «Referendum popolare confermativo»). I decreti del 28 gennaio 2020 e del 17 luglio 2020 riguardo la riforma per la riduzione del numero dei parlamentari hanno ripreso appieno la formula del 2016.
In tali consultazioni il referendum ha avuto valenza diversa: confermativa nel 2001, giacché voluto dalle stesse forze politiche che avevano approvato la riforma; oppositiva nel 2006 perché richiesto dagli avversari della revisione; assieme confermativa ed oppositiva nel 2016 giacché proposto a fini diversi da soggetti politici favorevoli e contrari alla riforma. Il referendum del 2020 ha origine dalla richiesta di appena 71 senatori contrari alla riduzione dei parlamentari. Va ricordato che tale numero fu raggiunto all’ultimo momento tra sottoscrizioni e ritiri delle adesioni (ordinanza Cassazione 23 gennaio 2020).
Il referendum del 20-21 settembre non ha quindi nulla di confermativo. Correttezza costituzionale esigerebbe che al referendum costituzionale non si affibbiasse alcun aggettivo, né oppositivo né confermativo. L’uso da parte governativa di un’espressione orienta gli elettori, anche se poi dovesse rivelarsi controproducente e aprire la via ad un effetto delegittimante nei confronti di chi ha voluto la riforma. Epperò, la libertà del corpo elettorale si rispetta anche nell’uso delle parole. Anche questo fa parte della cultura delle regole.