Siamo arrivati alle ultime battute di una campagna referendaria quantomeno anomala. Non solo per il Covid-19. La prima ragione risiede nell’avere voluto a tutti i costi da parte del governo abbinare il voto referendario con quello politico-amministrativo – l’election days -, dando prova di scarsa sensibilità verso la materia oggetto del quesito referendario. Si tratta di due voti di rango ben diverso ed era opportuno mantenerli distinti nei tempi della loro effettuazione. Si sarebbe evitato di oscurare la discussione sulla Costituzione con le logiche e le modalità della contesa per regioni e comuni, come invece è puntualmente avvenuto in quelle parti del paese direttamente interessate al voto amministrativo.
La seconda ragione è che il Sì è stato praticamente assente nella discussione. Non solo a livello territoriale, ma persino sui mass-media. I rappresentanti di 5Stelle e del Pd non si sono spesso presentati neppure agli appuntamenti canonici dei confronti in Rai, regolati dalle puntuali norme del par condicio su cui ha vigilato l’apposita commissione parlamentare.
Un eccesso di sicurezza sull’esito del referendum o mancanza di argomenti? Direi piuttosto quest’ultima, visto che i pezzi forti della propaganda del Sì, sono stati frantumati dall’evidenza dei dati e dalla stessa logica. Che il taglio dei parlamentari rappresenti una grande occasione di risparmio non può crederlo davvero nessuno, dopo i calcoli puntuali fatti dall’Osservatorio diretto da Cottarelli: lo 0.007% della spesa statale. Meno di un euro, la famosa tazzina di caffè per italiano all’anno. Che la rappresentanza non venga colpita è peggio che ingenuo pensarlo. Lo stesso dossier preparato dagli uffici studi del Parlamento e che ha accompagnato i lavori sulla legge, già chiarivano che si sarebbe passati da 1 deputato ogni 96.006 abitanti a 151.210 e da 1 senatore ogni 188.424 abitanti a 302.420. Conseguentemente paragonando le Camere “basse” – unica comparazione possibile – l’Italia con il taglio lineare dei deputati occuperebbe l’ultimo posto nella classifica dei paesi Ue. I tentativi di contestare aritmeticamente questi calcoli sono stati poco più che patetici.
L’argomentazione per cui in meno si lavora meglio è contraddetta dal modo con cui è organizzato il processo legislativo. Dove sono decisive le commissioni, 14, quelle di merito, per ognuna delle due camere, cui vanno sommate le giunte e le commissioni speciali e bicamerali. Poiché ogni parlamentare deve essere membro di una e non più di una commissione, ne consegue che le stesse saranno formate da pochi membri ed i partiti minori ne saranno esclusi. Poiché le commissioni possono lavorare anche in sede legislativa, ossia decidendo di fare nuove leggi senza passare dal voto d’Aula, questo vuole dire consegnare la funzione legislativa in mano a poche persone rappresentative solo delle maggiori forze politiche.
Alcuni hanno detto: ciò che manca lo faremo poi, a cominciare dalla legge elettorale. Ma come si sa queste sono spesso promesse da marinaio e converrebbe non fidarsi. Anche i decreti Salvini sulla “sicurezza” dovevano essere subito cambiati. Sono ancora lì. Se certe cose si volevano fare c’era il tempo di farlo, ad esempio tra la prima e la seconda deliberazione sulla legge costituzionale. In realtà non c’è alcun accordo e anche la legge elettorale che secondo il Pd doveva almeno essere incardinata nella discussione prima del referendum, è rimandata al dopo. Una legge, il cd. Brescellum, che prevede una soglia di sbarramento elevata (5%) e le liste bloccate in modo che la decisione su chi deve essere eletto sia sottratta all’elettore e rimanga nelle mani delle dei potentati di partito.
Da ultimo ha fatto una comparsa una curiosa motivazione: sarebbe il No a volere umiliare il Parlamento dal momento che nell’ultima votazione la modifica costituzionale è stata votata quasi all’unanimità. Ricordate la favola del lupo e dell’agnello? Si finge di dimenticare che nelle altre tre votazioni Pd e Leu avevano votato contro e hanno “cambiato parere” nell’ultima votazione – sullo stesso identico testo – solo per opportunità politiche legate agli accordi del nuovo governo. Ancora una volta la Costituzione viene messa sotto i piedi di un accordo politico.
Questo grave errore mette a dura prova la tenuta interna dei partiti che dovrebbero votare Sì. In particolare il fenomeno riguarda il Pd ove non c’è giorno che autorevoli esponenti o elettori manifestino la loro scelta per il No. Ecco quindi scattare l’antico meccanismo del ricatto. Non si dovrebbe votare No perché in questo modo il governo potrebbe cadere. In realtà tutti sanno che le sorti del governo sono più legate all’esito delle elezioni regionali che non a quelle del referendum. D’altro canto, a giudicare dal comportamento dei mercati finanziari e dagli stessi report delle maggiori società operanti nel settore, a cominciare da J.P. Morgan, nessuno prevede la caduta del governo, comunque certamente non a causa dell’esito referendario.
Quindi il voto referendario deve e può essere libero, motivato solo da ragioni costituzionali e non da contingenze politiche. Per questo scelgo il NO.