La Sardegna torna a far sentire la sua voce contro la militarizzazione, la repressione e l’industria bellica che devasta i territori e uccide i bambini nelle guerre del mondo. E lo fa con la forza morale più grande di tutte: quella delle madri.
Nel comunicato diffuso da Madri Contro la Repressione e Cagliari Socialforum, l’indignazione è immediata, limpida, radicale: «Noi Madri Contro la repressione e Cagliari Socialforum esprimiamo tutta la nostra solidarietà ai compagni e alle compagne indagate… Siamo con voi e risponderemo a questo ennesimo feroce attacco alla libertà della persona».
È una dichiarazione che non si limita a condannare la cosiddetta “operazione Maistrali” della DDA e della Questura di Cagliari: ne smonta la narrazione, ne denuncia la violenza simbolica e concreta, ne svela l’impianto politico. E lo fa chiamando per nome un clima sempre più grave: “squadracce fasciste”, “gogne mediatiche”, “accuse ridicole”, “repressione coloniale”.
Una ferita aperta che riguarda tutte le madri
In Sardegna, la memoria della repressione e dell’abuso del territorio non è una questione astratta. È un dolore antico che ritorna ogni volta che si parla di basi militari, di poligoni, di esercitazioni, di fabbriche di bombe come la RWM di Domusnovas, che produce ordigni poi utilizzati per i bombardamenti su Yemen e Gaza.
Per questo le parole del comunicato risuonano come un atto d’accusa collettivo:
«Solo in un regime fascista coloniale… si formulano accuse di terrorismo per manifestazioni antifasciste e anticoloniali».
E ancora: «Non ci fermerete. Non fermerete i nostri figli». È il grido di un popolo stanco di vedersi trattato come colonia interna, laboratorio di guerra e sperimentazioni militari, luogo dove ridurre al silenzio chi resiste. Ma soprattutto è il grido delle mamme: donne che da anni, in tutta la Sardegna, denunciano la complicità tra politica, industria bellica e media che normalizzano la distruzione.
Dalla repressione alle bombe: il filo rosso dell’indignazione
Le Madri Contro la Repressione non parlano solo delle indagini contro gli attivisti. Richiamano un intero contesto di oppressione:
«È uso, in una colonia, reprimere qualunque tentativo di critica… qualunque manifestazione di solidarietà». E ricordano che a pagare le conseguenze della violenza coloniale sono soprattutto loro: le famiglie, i giovani, i lavoratori precarizzati, i territori devastati.
È impossibile leggere queste parole senza pensare ai bambini yemeniti uccisi dalle bombe italiane, oppure ai piccoli di Gaza martoriati dagli attacchi israeliani. Bombe fabbricate anche in Sardegna.
Per questo la protesta delle Madri sarde contro la repressione non è solo una battaglia locale: è un grido universale contro il massacro dei civili, dei bambini, delle famiglie innocenti. La loro indignazione attraversa il Mediterraneo e arriva fino alle case distrutte di Sanaa e Rafah.
La memoria storica che ritorna
Il comunicato richiama nomi e episodi della storia repubblicana italiana che non possono essere dimenticati: Antonio Segni, Giovanni De Lorenzo, Giuseppe Pisanu, Francesco Cossiga. Figure istituzionali accusate di complotti, repressione, piani di destabilizzazione.
Citazioni che non sono semplici rimandi storici, ma che servono a dire: la repressione non è un incidente, è un metodo ricorrente.
E oggi quel metodo si ripresenta sotto forma di indagini per “terrorismo”, gogne mediatiche, violenza poliziesca, criminalizzazione dell’antifascismo e dell’ambientalismo.
La Sardegna si ribella: “Non fermerete i nostri figli”
Le madri sarde lanciano un messaggio potente, che dovrebbe interrogare profondamente l’opinione pubblica italiana: «Chiama alla difesa dei valori antifascisti… Non ci fermerete. Non fermerete i nostri figli».
Perché sono proprio i loro figli, i giovani sardi, ad aver pagato per decenni le conseguenze dell’occupazione militare dell’isola: inquinamento, tumori, miseria, emigrazione forzata, devastazione dei territori. E sono sempre loro i primi a opporsi alla produzione di armi che uccidono altri figli, altri bambini, in altre parti del mondo.
Un appello che non può essere ignorato
Il comunicato si chiude con una chiamata alla mobilitazione «contro chi difende con ogni mezzo le squadracce fasciste… e usa la violenza degli idranti, dei manganelli e dei gas lacrimogeni contro i manifestanti antifascisti definendoli “terroristi”».
È un appello che supera i confini della Sardegna e si rivolge a tutte le madri, a tutte le persone che credono nella pace, nella giustizia, nella libertà.
Perché in ogni bomba caduta su Gaza c’è anche un pezzo di complicità europea.
Perché in ogni bambino ucciso in Yemen c’è una responsabilità che arriva fino alle nostre fabbriche.
Perché la repressione che colpisce oggi gli attivisti sardi riguarda tutti: riguarda la democrazia, la libertà, il diritto di dire no alla guerra.
Le madri sarde ci ricordano una verità semplice e inaggirabile: una società che fabbrica armi non può pretendere di chiamarsi democratica, finché non ascolta i suoi figli… e soprattutto le loro madri.
Laura Tussi


