La siccità dell’estate 2022
Mai come in questa estate possiamo affermare che la natura sta presentando il conto all’umanità. Mentre possiamo vedere il nostro maggiore fiume praticamente in secca, si moltiplicano gli appelli a fare qualcosa. Ma cosa?
Chi, come chi scrive queste righe, si è occupato di acque da oltre 40 anni, sente discutere di questi temi e delle cose da fare da diversi decenni. Ma si può dire che ben poco è stato fatto per garantire un serio governo delle acque e del suolo.
Anche nei programmi delle forze politiche che partecipano a queste elezioni e, in particolare in quelle che si candidano al governo del Paese, il tema è assente, o al massimo è accennato in modo superficiale con banalità e frasi generiche. Si può affermare che, mentre tutti o quasi parlano, di ambiente, quasi nessuno ha una visione completa sulla centralità che il tema del “governo delle acque e del suolo” debbono avere nei programmi di governo, sia per garantire l’accessibilità alla risorsa idrica, sia per prevenire eventi catastrofici, sia per contrastare gli effetti della crisi climatica. È utile, in proposito, leggere un precedente articolo, pubblicato il 29 giugno 2022, sempre sul sito di Transform-Italia (https://transform-italia.it/siccita-clima-governo-del-territorio-e-delle-acque/).
Forse è anche utile capire che cosa è successo negli anni passati e cosa ha impedito di fare quello che andava fatto.
Le sbornie degli anni ‘90
Possiamo affermare come ciò che è accaduto dopo la fine del decennio che va dal 1980 al 1990 (forse a cause delle molte sconfitte politiche e culturali della sinistra e del movimento operaio di quegli anni), abbia dato vita ad una serie di eventi negativi, per i dominati, per la democrazia e per l’ambiente, il tutto annebbiato da una vera e propria sbornia delle coscienze.
Non solo, infatti sono partiti i percorsi ultraliberisti (svendita del patrimonio pubblico, privatizzazione dei servizi pubblici, ecc.), legati anche a ciò che si andava modificando nella UE (dall’Europa sociale, al trattato di Maastricht), ma sono partiti anche gli attacchi alla struttura democratica delle nostre istituzioni (messa in discussione delle leggi elettorali proporzionali, l’invenzione dei Governatori delle regioni, le prime iniziative per arrivare alle modifiche della costituzione, culminate con la riforma del Titolo V fatta nel 2001 dal Governo Amato). Tutto ciò senza che partisse un’adeguata azione di contestazione e resistenza.
Accanto a questi avvenimenti, proprio mentre cominciava ad entrare nel vivo la discussione a livello internazionale sull’ambiente e sui cambiamenti climatici (il trattato di Rio è del 1992), in Italia sono partiti i percorsi per annullare o rendere di più difficile attuazione, le norme e i Piani, prodotti in decenni di lavoro delle istituzioni scientifiche e delle Commissioni Parlamentari. Da un lato la cosiddetta legge Galli del 1994 che dava inizio al percorso che, in nome dell’efficienza (in effetti molto bassa da parte di molte strutture pubbliche), trasferiva le gestioni dei servizi in mano a soggetti privati (che spesso, pensando solo ai propri profitti, non hanno migliorato di molto l’efficienza e la qualità della gestione). Dall’altro sono state indebolite normative che precedente che univano la gestione delle acque con quella del suolo (il caso più importante è quelle delle indicazioni contenute nella legge 183 del 1989 o quelle di alcune deliberazioni di alcuni comitati tecnici ministeriali (ad esempio i “criteri per un corretto uso delle acque”) (si veda il citato articolo pubblicato su transfom!Italia). Forse l’unico momento in cui il Governo italiano aveva cercato di riprendere la discussione su questi temi è stato nel 1999, quando, in occasione delle discussioni in sede UE sulla direttiva acque, venne approvato il decreto legislativo 152/1999. In quella occasione fu fatto un Convegno internazionale, durato ben tre gironi, in cui si tenne “LA PRIMA (e ultima!) CONFERENZA NAZIONALE SULLA TUTELA DELLE ACQUE”, ma poi non se ne fece più nulla.
Vale la pena di sottolineare come tra i più attivi attori di questa serie di avvenimenti negativi nell’assetto economico ed istituzionale non vi è stata solo la destra “becera”, ma quelli che allora erano nei DS e, ai giorni nostri, nel PD. Anzi, il Pd è apparso come uno dei più convinti artefici del percorso liberista.
Vale la pena richiamare in particolare, tra gli elementi negativi, quelli che riguardano le modifiche alla struttura istituzionale del Paese. Questo perché ciò dà un senso all’intero percorso, quello della riduzione della democrazia e dell’attacco alla possibilità di rappresentanza politica, ciò a discapito della capacità delle istituzioni di difendere l’interesse pubblico a livello nazionale.
Queste modifiche, che come vedremo più oltre si canalizzeranno verso la “autonomia differenziata” sono, ancora oggi difese dal vertice del PD, che dirige, per le prossime elezioni politiche, una alleanza, dove confluiscono le posizioni più controverse: da quelle di Fratoianni, a quelle ultra liberiste di +Europa che, ad esempio, vuole abolire il servizio sanitario pubblico a favore di un sistema privato.
La nefasta riforma che si profila: l’autonomia differenziata
Alcuni “governatori” del nord, compreso il futuro probabile competitore di Letta alla segreteria del PD (il renziano Bonaccini, presidente delle regione Emilia-Romagna) hanno fatto propria la bandiera dell’autonomia differenziata, cioè quella riforma, che partendo dalle citate riforme del Titolo V della costituzione, che hanno rivisto le competenze delle diverse istituzioni, tende ad aumentare delle competenze delle regioni rendendole ancora più autonome su molti terreni; dalla scuola alla sanità, dall’ambiente a alle politiche fiscali. Come già ampiamente spiegato da molti, questa sciagurata riforma avrà, da un lato, l’effetto di aumentare le disparità sociali, di dividere ancora di più l’Italia tra zone ricche e zone povere, e dall’altro l’effetto di rendere ancora più ingestibili, in un’ottica razionale e unitaria, temi come l’ambiente, la scuola o la sanità.
Lo stesso Boccia, che fu ministro degli affari regionali per il PD, nel governo Conte II, appoggiò questa deriva, del resto la stessa coraggiosissima Elly Schlein, vicepresidente della regione Emila ed esponente dell’ala più ambientalista vicina al PD, non sembra abbia mai detto nulla in merito a questione.
È proprio in relazione al tema del governo delle acque che appare utile fare alcune considerazioni sull’autonomia differenziata la cui attuazione aggraverà gli effetti negativi (già gravi) di alcune politiche regionali.
Un primo punto, di carattere generale, da sottolineare: non sempre le strutture amministrative di carattere locale (costituite in base a vecchie visioni politiche) sono le più adatte a gestire tematiche ambientali. Ad esempio, come forse è noto a tutti, i fiumi spesso fanno da confine naturale tra le regioni o fra le province. Per cui un fiume come il Ticino ha un bacino idrografico che sta una parte in Piemonte e una in Lombardia, un fiume come il Po ha la maggior parte del bacino idrografico tra le regioni del Piemonte, della Lombardia, dell’Emilia Romagna e del Veneto, un fiume come l’Adige sta, per la parte a monte, in Trentino e in alto Adige, e per la parte a valle in Veneto (che succede se la provincia di Trento decide di prelevare tutta l’acqua del fiume per irrigare i meleti? Che dirà il Veneto?). Già nel passato si sono visti i guai causati da politiche regionali spesso sbagliate in sé, i cui effetti negativi venivano potenziati dalla mancanza di unitarietà delle stesse (aziende indotte a spostare da un lato all’altro del Po o da un lato all’altro del Livenza, per poter usufruire di norme o regole più convenienti. Ma, soprattutto, ha perso di potere e significato quella che doveva essere la norma cardine per il governo delle acque e del suolo: la pianificazione di bacino fatta dalle autorità di bacino.
Infatti, proprio per evitare questi problemi, la legge 183 del 1989, nell’istituire le autorità di bacino (i bacini erano individuati come nazionali, interregionali, e regionali), affidava a questi importanti compiti relativi alla pianificazione di bacino, alla gestione delle acque e all’uso del suolo, specificando che altri eventuali piani di altri soggetti (regioni, provincie, ecc..) dovevano conformarsi alle indicazioni delle autorità di bacino (si trattava di norme sovra-ordinate).
Naturalmente questa indicazione è stata fondamentalmente disattesa, sia per l’entrata in vigore di altre norme (alcune leggi dicevano esplicitamente che alcune varianti urbanistiche diventavano automaticamente variazione dei piani di bacino!), sia per i contrasti con le regioni in grado di far pesare il loro peso politico.
Alla luce di quanto accaduto possiamo immaginare che succederà, in tema di gestione delle acque e del suolo, dopo l’entrata in vigore della famigerata “autonomia differenziata”!
Per inciso va detto che, forse, alla luce di considerazioni come questa, era molto più sensato pensare di abolire le Regioni e rafforzare le Provincie, come enti territoriali di “area vasta”, più vicini al territorio e ai cittadini, in grado di pianificare meglio molte di quelle attività ora mal gestite dalle regioni, senza peraltro dover intervenire con normativa autonoma su temi di carattere complessivo.
La legge 183/89 fu successivamente integrata dalla con altre leggi (la 253/90, la 493/93, la 61/94, la 584/94), con una serie di modifiche più o meno significative, ma sostanzialmente, rimase sempre poco applicata. Oggi, a seguito di una direttiva comunitaria sono in discussione alcuni disegni di legge alle Camere, che però, al di là del giudizio più o meno positivo su alcuni, non sembrano avere la visione della L.183/89, appaiono più mirati a definire attività conoscitive e proporre misure (importanti) di prevenzione contro cose come: la desertificazione, l’erosione dei suoli, o l’impermeabilizzazione degli stessi, Non vi sono, invece, cenni significativi a regole sulla gestione integrata delle acque e dei suoli, elementi determinati per garantire un vero e proprio “governo delle acque”, valido su tutto il territorio nazionale, senza differenze legate al colore politico o all’importanze delle Regioni.
Le forze politiche, come Unione Popolare, che si propongono di partecipare alle elezioni con lo scopo di costruire un polo alternativo alle politiche liberiste dei vari schieramenti che in questo momento occupano la scena politica del paese in nome dell’atlantismo e di una mitica agenda Draghi, dovrebbero inserire, con una attenta riflessione, nella propria agenda politica il tema del “governo delle acque e del suolo”, capendo che non si stratta semplicemente di fare piani per affrontare riparare i danni di politiche scellerate fatte sul territorio, i cui effetti sono aggravati dalla crisi climatica, ma di cominciare a praticare un diverso modello di gestione del territorio più in accordo con le esigenze ambientali e meno succube delle speculazioni finanziarie degli interessi privati. Insomma da una visione antiliberista del governo delle acque a una visione anticapitalista della società.
Riccardo Rifici