Giorgia Meloni ha citato il Garibaldi del “qui o si fa l’Italia o si muore”. Peccato che nel programma del Governo ci sia l’autonomia regionale differenziata che nella versione turbo-leghista di Calderoli (incostituzionale anche con l’attuale pessimo Titolo V) porterebbe alla divisione dell’Italia.
L’elezione diretta del Presidente della Repubblica, che nelle intenzioni dovrebbe garantire una centralizzazione per contenere le Regioni, non sarebbe in grado di governare le loro divaricazioni.
Per la Lega l’autonomia regionale differenziata è la risposta alla tentazione presente in regioni forti (Lombardia, Veneto, Emilia Romagna) di procedere per conto loro nella saldatura con aree forti della Germania e del Nord Europa.
Quirinale. Foto Umberto Verdat
La Lega punta a rappresentare settori imprenditoriali, finanziari, culturali di queste regioni attratti da questa scorciatoia per l’Europa. Se il resto delle regioni rimarrà indietro, alla deriva, pazienza. L’assalto, fallito, della Lega per conquistare l’Emilia Romagna parla di questo.
I tempi sono cambiati, la Lega ha perso appeal e tanti voti. Oggi il fai da te regionale ha perso credibilità ed è tornata di attualità il bisogno di risposte nazionali, come nella lotta al Covid, nella risposta europea alla crisi con il Next Generation EU, per la guerra in Ucraina che sta creando angoscia e bisogno di risposte credibili per evitare una nuova guerra mondiale.
Malgrado questo, ancora dobbiamo confrontarci con l’autonomia regionale differenziata, frutto avvelenato della modifica del titolo V della Costituzione approvato dal centro sinistra nel 2001 poco prima della fine della legislatura, con l’obiettivo di tagliare l’erba sotto i piedi alla Lega. Come era prevedibile vinse l’originale e il centro sinistra finì all’opposizione per cinque anni.
Giorgia Meloni
Questa pessima modifica della Costituzione non è servita allo scopo e tuttora dobbiamo trovare il modo di bloccare la “secessione dei ricchi”, definizione forse sommaria ma fondata.
La Lega agisce per disperazione, perché i voti calano e Fdi l’ha surclassata perfino in Veneto, per questo punta sull’autonomia regionale differenziata che, nell’inaccettabile versione Calderoli, porterebbe al logoramento dello stato nazionale in Italia.
Così si consoliderebbero le 20 sanità regionali, che hanno portato a 800.000 migranti della salute dal sud e alle difficoltà irrisolte dei tagli al pubblico per favorire il privato, alla crisi dei presidi sanitari di base che durante il Covid ha intasato gli ospedali pubblici. Si spacchetterebbe la scuola italiana in 20 regionali, forse introducendo il dialetto come Eni ha fatto in centinaia di distributori di carburanti del Nord. Oppure fingendo di poter affrontare a livello regionale le infrastrutture di comunicazione nazionale (autostrade, ferrovie, ecc.) o i problemi ambientali, del lavoro, dell’energia con il passaggio dal fossile alle rinnovabili. Tutti problemi di dimensione europea oltre che nazionale.
La proposta di Calderoli non deve passare. Perfino dentro la maggioranza c’è chi si rende conto che la frattura tra aree ricche e aree povere può diventare un disastro nazionale. Nella maggioranza di destra ci si illude, se si apre la stalla del fai da tè regionale il Presidenzialismo non riuscirà a garantire gli interessi nazionali. Anzi per rimediare ad un disastro annunciato ne avremo un secondo, stravolgendo la Costituzione nata dalla Resistenza, cioè antifascista.
Per contenere le spinte para secessioniste della Lega c’è la proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare promossa dal Cdc (firmabile sul sito www.coordinamentodemocraziacostituzionale.it) che propone non solo di contrastare la bozza Calderoli ma di modificare gli articoli 116 e 117 della Costituzione, bloccando a monte la possibilità di divaricazioni territoriali e sociali e garantendo l’esigibilità ovunque dei diritti costituzionali fondamentali.
E’ un punto forte per contrastare le tentazioni della Lega, ma occorre attrezzarsi per respingere lo scardinamento della Costituzione. Lasciando da parte, per il momento, lo sfratto anticipato che qualcuno fa balenare per il Capo dello Stato rieletto un anno fa, è evidente che l’elezione diretta del Presidente della Repubblica trasformerebbe il garante dell’unità nazionale nel capo della fazione che vince le elezioni, che avrebbe anche la maggioranza in parlamento. Arriveremmo ad una monocrazia dei vincitori, che imporrebbe di cambiare altre parti decisive della Costituzione. L’elezione del parlamento andrebbe disancorata da quella del Presidente eletto direttamente per evitare che diventi una sua protesi, così dovrebbero essergli tolti tutti i poteri di garanzia che andrebbero messi in capo ad altri, indicando con chiarezza i poteri di riequilibrio di una figura di grande potere.
Roberto Calderoli e Matteo Salvini
Certo Meloni si sta rendendo conto che le soddisfazioni promesse in campagna elettorale non ci saranno o saranno insufficienti, per questo preme per il presidenzialismo. Per ora con connotati vaghi e incerti, si capisce però che pensa di averne bisogno per governare una maggioranza tutt’altro che coesa: il redivivo mito del taglio del nodo gordiano punta alla soluzione delle difficoltà reali presenti e future.
Questo avrebbe un prezzo troppo alto perché stravolgerebbe la Costituzione, che invece va difesa ed attuata, semmai corretta dagli errori intervenuti di riscrittura. Il presidenzialismo ha fallito, a partire dagli Usa, dividendo la società e rendendo difficile la coesistenza delle diversità, che è storicamente il punto di forza della nostra Costituzione.
Se la maggioranza riuscisse a stravolgere la Costituzione dovrà sempre essere garantito il diritto delle elettrici e degli elettori di dire l’ultima parola, con i referendum.