Ancor prima che Draghi iniziasse le consultazioni, il giornale di Confindustria poneva la vera questione di fondo: riscrivere il Recovery plan e attuare le riforme strutturali, lavoro, pensioni, pubblica amministrazione, fisco, concorrenza.
Ossequiente al nuovo gotha di Confindustria, il Sole faceva sciogliere come neve al sole le flebili obiezioni del teatrino politico mosse al governo Conte 2, e lasciava emergere in filigrana la trama reale che ha prodotto il colpo di mano messo in atto. 223,9 mld (inclusivi dei 15,9 di risorse aggiuntive) sono davvero troppi per essere sprecati in mille rivoli o “ristori” senza finalità sensate, come ridare una boccata di ossigeno a chi senza arte né parte boccheggia senza occupazione alcuna, o rimettere in piedi un tessuto economico, costituito da migliaia di piccole attività, piccolo commercio, piccolo artigianato, stremato dalla prolungata chiusura emergenziale. “Il testo del Recovery plan è apparso sin da subito una sovrapposizione di spese senza un disegno unitario di politica industriale” (Il Sole 24 ore, 4 febbraio 2021).
La politica industriale è lo zenit e il nadir.
In fondo vale sempre il vecchio buon adagio del mercato: chi non è in grado di reggere le sfide della concorrenza, perisca pure, con buona pace di chi ha investito risorse, capacità, tempi di vita.
La posta in gioco -dicono sempre i nostri- deve presupporre uno sguardo lungimirante, capace di cogliere la direzione di marcia delle grandi contraddizioni intra-capitalistiche: qui, se lo stato non fa qualcosa, l'industria italiana soccombe! In verità l'industria italiana giungeva all'appuntamento con la pandemia già molto provata: caduta della produzione, riduzione dell'export, diminuzione degli investimenti in capitale costante ed incremento di quelli in speculazioni finanziarie e immobiliari, valori gonfiati, capitali fittizi, aumento del peso del capitale straniero nelle aziende italiane.
Nel suo rapporto all'Assemblea annuale di Confindustria del settembre 2020 Bonomi poneva come indifferibile, nel quadro dell'acutizzazione della concorrenza internazionale, l'intervento dello stato, con la collaborazione delle parti sociali, perché “le sfide globali non si giocano sul piano delle singole imprese né su quello dei singoli paesi, ma su quello delle piattaforme continentali in competizione tra loro per la leadership tecnologica del prossimo futuro”. Solo se sarà garantita la partecipazione di tutti i componenti del sistema economico e sociale, le imprese italiane saranno messe in grado di “partecipare da protagoniste alle catene del valore strategiche europee e globali”. (Confindustria, Il coraggio del futuro, p.134).
Non occorre scomodare Foucault per cogliere che l'autonomia e indipendenza del mercato, fondate sul principio del laissez faire -laissez passer, non sono concessioni della politica. E' piuttosto vero il contrario: è il mercato che decide della politica. «E' il meccanismo naturale del mercato […] a permettere di falsificare e di verificare la pratica di governo, qualora si valuti sulla base di questi elementi ciò che un governo fa, i provvedimenti che adotta, le leggi che impone” (M. Foucault, Nascita della biopolitica. Corso al collegio di Francia 1978-79, Milano 2005, p.39)
E' quanto occorso al governo Conte 2. Che avrebbe or dunque il nuovo governo per essere finalmente in grado di risolvere gli urgenti problemi del paese, sebbene sarà costituito da quella stessa maggioranza politica che nell'arco di una settimana è passata dal sostegno al governo Conte al sostegno al governo Draghi? Garantirà il più efficace allineamento delle istituzioni pubbliche alle istanze del sistema finanziario e a quelle del sistema produttivo, con il placet dell'Unione Europea.
Il futuro governo- è stato scritto sempre sul Sole- sarà un “alleato prezioso alla spinta propulsiva alla concorrenza dei mercati”. L'ago della bussola di Draghi, per sue espresse dichiarazioni, ha sempre indicato la “competitività delle imprese” come punto di riferimento di una strategia, le cui coordinate sono l'ampliamento dei processi di finanziarizzazione e di privatizzazione.
Nel famoso articolo pubblicato sul Financial Times in piena pandemia, Draghi, tanto elogiato urbi et orbi, è arrivato a sostenere, in contrasto con tutte le dichiarazioni che aveva reso per anni, che era necessario che gli stati, per far fronte alla pandemia, si indebitassero. Erano certamente stati sospesi sino al 2021 il Patto di stabilità e crescita e dunque l'obbligo imposto ai governi di andare verso il pareggio di bilancio. Ma a ben guardare, l'articolo in questione apriva alla necessità che gli stati assorbissero nei loro bilanci le perdite del settore privato, fino a cancellarle: “Le perdite del settore privato – e il debito per colmare il gap – devono essere assorbite, in toto o in parte, dai bilanci pubblici. I livelli più alti di debito pubblico diventeranno una caratteristica permanente delle nostre economie e sarà accompagnata dalla cancellazione del debito privato”.
Il solito vecchio mantra: se ripartono le imprese, ripartirà l'occupazione. Non corrisponde a verità. Come ha denunciato Oxfam in un recente rapporto dal titolo La pandemia dei profitti, a livello globale in piena pandemia decine di miliardi di dollari di utili stratosferici sono stati distribuiti agli azionisti da parte di grandi corporation e multinazionali, a scapito dei livelli occupazionali, della qualità del lavoro, di attività di ricerca e sviluppo, delle tecnologie amiche del clima, della riconversione dei processi produttivi, nonché del pagamento di una equa quota di imposte, che generano risorse pubbliche necessarie alla ripresa. Il surplus, anche miliardario, non viene reinvestito in occupazione, in lavoro stabile, tutelato, a tempo indeterminato.
Le ristrutturazioni aziendali che le imprese in Italia vogliono poter realizzare senza vincolo alcuno e che devono presupporre lo sblocco dei licenziamenti e la massima flessibilità del lavoro; gli oltre 180 tavoli di crisi aperti al Ministero per lo sviluppo economico; la banda ultra-larga fissa ed il 5G; la riforma degli ammortizzatori sociali, troppo costosa per la parte messa in carico alle imprese; l'affossamento delle riforme del reddito di cittadinanza e del decreto dignità sui contratti a tempo determinato; la realizzazione delle infrastrutture di trasporto e dei corridoi di transito; le semplificazioni procedurali, che favoriscano l'assalto al territorio; l'estensione dell'economia 4.o; un riorientamento del sistema di istruzione in funzione delle esigenze dell'industria, la composizione della cabina di regia che deve decidere della destinazione delle risorse, sono solo alcuni degli appuntamenti che vedono convergere gli interessi delle imprese con quelli del capitale finanziario.
Il carico da novanta l'ha messo l'UE, che ha ribadito a chiare lettere che il PNRR che il governo Conte aveva predisposto mancava di obiettivi misurabili per ogni investimento previsto e soprattutto di riforme, vale a dire di precisi impegni che il paese dovrà attuare in cambio dei finanziamenti europei previsti. Altrimenti niente risorse. Naturalmente le riforme in questione non sono viatici verso equità, giustizia, redistribuzione della ricchezza, come la parola potrebbe evocare, ma verso la blindatura del paese all'interno della gabbia d'acciaio europea. In un intervento su Europa 2020: quali riforme strutturali per l'Italia, la posizione di Draghi risultava cristallina nella sua sintesi perfetta: “Un rafforzamento dei meccanismi di governance in Eu è oggi all'ordine del giorno. Esso muove lungo tre direzioni: una più stretta disciplina delle politiche di bilancio; la sorveglianza degli squilibri macro-economici potenzialmente rilevanti per la stabilità finanziaria dell'area; l'introduzione di un meccanismo permanente di gestione della crisi”. L'operato delle istituzioni europee- ha sottolineato Draghi- è stato sempre orientato ad istituire una stretta correlazione tra la sostenibilità della finanza pubblica e della stabilità finanziaria con quella della competitività. Insomma, la stabilità finanziaria deve essere in funzione della concorrenza.
In altre circostanze ha evocato la metafora del “pilota automatico”, a voler rimarcare l'impotenza della politica rispetto ai processi decisionali avviati dalle grandi istituzioni economiche.
Altro che una comunità destinata ad aiutare i suoi stati membri in difficoltà! All'irreversibile svuotamento della democrazia per mano armata dei mercati e della concorrenza, si è andato sostituendo un “totalitarismo neoliberale” (Gallino, 2013), che si configura come una sorta di “colpo di stato a rate” (Ivi).
Il potere che la grande finanza è venuta ad assumere nei confronti dei governi europei, per intercessione delle istituzioni europee, ha conosciuto la sua apoteosi in Grecia, dove governi, referendum popolari, maggioranze politiche, dal Pasok di Papandreu a Siriza di Tsipras, ministri, commissioni di inchiesta sono stati spazzati via dall'aggressività del capitale europeo e delle istituzioni che lo rappresentano.
Complicità dentro la morsa del “colpo di stato a rate”, semplificazioni, infrastrutture, liberalizzazione del mondo del lavoro nel segno di ulteriori precarietà e flessibilità, riforme strutturali, privatizzazioni, promozione degli investimenti, socializzazione delle perdite ad opera dello stato e delle istituzioni pubbliche, sostegno alle imprese, affinché diventino più grandi e globalizzate, e alle banche affinché, lasciandosi alle spalle le loro storiche “sofferenze”, siano protagoniste dei processi di dominazione del capitale. Sono le aspettative investite alla corte di Draghi, che, con competenza, misura e fair play, saprà definire come “vocazione europeista ed atlantista”, “fare uscire il paese dalla palude dell' immobilismo”, “avviare la ripresa economica”, “attuare finalmente le grandi riforme nel paese”, “garantire l'occupabilità”, accelerare gli “investimenti”, “ridare respiro e prospettiva a banche e imprese”, “puntare sui giovani” ed il loro futuro.
Le parole fanno le cose, nei regimi neoliberali. Perchè, sempre a voler scomodare Foucault, il potere esercita la sua influenza, istituendo un regime di verità – il suo- al quale crediamo tutti. O quasi tutti.
Cristina Quintavalla