Viesti indica tre fattori da cui esse dipendono: la disponibilità di infrastrutture, i meccanismi di finanziamento dei servizi pubblici e la qualità delle amministrazioni e ritiene che l’autonomia regionale differenziata rischia di incidere su tali fattori aggravando la situazione.
Il tema delle disuguaglianze territoriali nei diritti dei cittadini dovrebbe ricevere un’attenzione molto maggiore da parte delle forze politiche e nel dibattito pubblico italiano. Si tratta di una questione fondamentale, per più motivi.
In primo luogo, politico-ideali. Perché le disuguaglianze nelle condizioni di vita sui diversi territori sono l’altra faccia della medaglia delle disuguaglianze fra le persone. Si è diseguali per condizioni soggettive, per il patrimonio di cui si dispone o perché si è uomini o donne; e si è diseguali per le condizioni disponibili per le comunità cui si appartiene, per la speranza di vita che si ha se si è colpiti da un infarto o per la qualità dell’istruzione per i propri figli.
In secondo luogo, economici. La crescita economica, il complessivo benessere di un paese dipendono dal contributo che tutti i territori possono dare all’economia nazionale. Nessun paese cresce se molti territori rimangono indietro. Ma tale contributo è condizionato anche dalla disponibilità di servizi, che influenzano ad esempio lo stato di salute e i livelli di istruzione dei lavoratori.
Infine, di sostenibilità politica. Da un decennio, nei paesi avanzati, è sempre più rilevante il fenomeno di protesta politico-elettorale dei “territori che non contano”. I cittadini che sperimentano disuguaglianze nei diritti o che percepiscono una disuguaglianza di riconoscimento delle proprie esigenze tendono a non partecipare più alle elezioni, o a votare per forze che promettono loro protezione e interesse, spesso di estrema destra. In Italia, è significativo ad esempio lo scarto di voti fra le forze politiche al crescere della dimensione dei comuni.
In Italia le differenze territoriali nei diritti sono estremamente ampie. Inoltre, in Italia, vi è una forte correlazione fra livelli di reddito dei territori e i servizi pubblici che sono disponibili per i loro abitanti, come se vi fosse un nesso fra ricchezza privata e azione pubblica (cfr. Viesti, 2021). Tale correlazione è minore in Spagna e quasi del tutto assente in Francia e in Germania. Nel corso di questo secolo, queste differenze non si sono ridotte; in alcuni casi si sono accresciute.
Da che cosa dipendono queste disuguaglianze e che politiche possono essere messe in atto per ridurle? Tre ne sono le cause principali, fra loro intrecciate.
In primo luogo, esse dipendono dalla dotazione relativa di infrastrutture materiali e immateriali, precondizione necessaria anche se non sufficiente per il godimento dei diritti. Se non ci sono binari non circolano treni; se non ci sono (o sono molto lontane) moderne TAC negli ospedali è più difficile fare prevenzione sanitaria. Gli scarti in tali dotazioni in Italia sono estremamente ampi. A livello macroregionale questi divari emergono fra Sud e Nord, con il Centro in posizione in posizione intermedia ma più vicino al Nord; al loro interno, i divari sono soprattutto quelli fra aree urbane e aree interne.
La Costituzione prevede (119.V) che lo Stato destini risorse aggiuntive per promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale e per rimuovere gli squilibri economici e sociali. La legge 42/2009 sul finanziamento di regioni e Enti Locali prevede un fondo perequativo infrastrutturale come precondizione per il finanziamento corrente dei servizi. Le prime, le politiche di coesione territoriale, hanno un impatto molto limitato, limitandosi a compensare parzialmente gli scarti nelle risorse ordinarie, e sono relegate ad una discussione tecnica fra addetti ai lavori. Il secondo non è mai entrato in opera; dopo essere stato costituito dal governo Draghi (pur con cifre assai modeste) è stato pesantemente de-finanziato dall’attuale governo. La quota del PNRR destinata al Sud – unico indirizzo di carattere territoriale di quel grande programma – resta avvolta da grandi opacità e incertezze, come tutto il Piano: rischia di essere l’ennesimo proclama senza realizzazioni.
In questo secolo è fortemente scemata l’attenzione per questi problemi; che pure sono molto percepiti nelle aree più deboli. E il cui permanere irrisolto genera sfiducia, mancata partecipazione civica e elettorale: ha rotto la connessione fra fasce deboli del corpo elettorale e partiti che per propria natura dovrebbero perseguirne la soluzione.
Al contrario, è cresciuto il ruolo del mercato nel condizionare l’allocazione degli investimenti pubblici: le forze dell’economia tendono a orientarli dove lo sviluppo è già più forte e i rendimenti maggiori, innestando a aggravando circoli viziosi. Il più grande e positivo programma di investimento di questo secolo, l’alta velocità ferroviaria, ha connesso i territori più forti, con maggiore domanda e redditività per il gestore dei servizi; se questo è in parte comprensibile, è avvenuto che mentre queste opere venivano realizzate, il resto della rete veniva quasi abbandonato, acuendo fortemente gli squilibri.
In secondo luogo, dipendono dai meccanismi di finanziamento delle politiche pubbliche, soprattutto a livello di regioni e enti locali. La nostra Costituzione prevede che nel definire questi meccanismi si parta proprio dai diritti civili e sociali, i cosiddetti LEP (livelli essenziali delle prestazioni, di cui all’art. 117.2.m della Costituzione); per la loro fruizione vanno calcolati fabbisogni territoriali, e costruito un fondo perequativo per compensare le diverse capacità fiscali. Per impedire l’inverarsi delle disuguaglianze territoriali: per impedire che laddove il gettito fiscale è maggiore, siano conseguentemente maggiori le capacità di finanziare i servizi.
Questo non accade. La Costituzione, a quasi 25 anni dalla sua revisione, giace gravemente inattuata (cfr. Viesti, 2023). Assolutamente nulla si è fatto per le Regioni. Poco, tardi, e spesso male, si è fatto per i Comuni e le Aree metropolitane. Iniziative molto positive, come quelle prese dal governo Conte II in materia di asili nido e assistenti sociali restano isolate, ignorate dalle scelte fatte con il PNRR, con problemi attuativi.
La sanità rimane storia a sé. La legislazione nazionale prevede sin dagli anni Novanta che il fondo nazionale debba essere ripartito fra regioni in base a due criteri: anzianità e deprivazione sociale. Così non è stato. Attraverso norme formalmente provvisorie, si è adoperato sempre e solo il primo, a discapito del Mezzogiorno e in particolare della Campania. Anche da questo origina la circostanza che in quella regione (come pure in Calabria e Sicilia) la mortalità trattabile, cioè quella evitabile con appropriate cure, sia molto più alta che nella media nazionale. Sorprende che nel recente, eccellente, disegno di legge del PD sulla sanità non sia toccato il tema della garanzia di livelli accettabili di servizi in tutti i territori. Perché in Italia si vive e si muore anche a causa delle disuguaglianze territoriali nei diritti.
I conflitti territoriali per l’allocazione delle risorse sono fisiologici, inevitabili. In Italia sono però rimossi dalla discussione pubblica, e risolti, attraverso contrapposizioni aspre, in sedi improprie, formalmente tecniche. La materia è invece prettamente politica; richiede una visione lunga del futuro del paese e la capacità di mediare fra le esigenze del bilancio pubblico e il perseguimento dell’uguaglianza sostanziale fra i cittadini. Richiede, ancor più, la capacità di comporre i conflitti territoriali per l’allocazione delle risorse in base a principi politici, condivisi. Un campo di riflessione e di proposta complesso, spinoso, ma essenziale per i partiti che si candidano alla guida del paese.
In terzo luogo, dipendono dalla capacità delle amministrazioni centrali, regionali, locali di trasformare con efficacia le risorse disponibili in servizi di qualità. Su questo tema vanno accuratamente evitati luoghi comuni, spesso interessati. E tuttavia, vi sono disparità; criticità, spesso maggiori al Sud.
Ma questi temi sono derubricati a questioni locali. In questo secolo, il Parlamento sembra aver abdicato al suo dovere di garante ultimo e sovrano dei diritti dei cittadini; non ha mai esercitato il dovere di affiancarsi o sostituire altre amministrazioni nei casi in cui lo richiedono “la tutela dell’unità giuridica o dell’unità economica e in particolare la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali”, come recita l’art. 120 della Costituzione.
Ancora una volta è del massimo interesse quel che accade nella sanità. Sembra essersi realizzato un patto, che potrebbe essere definito scellerato, fra la politica nazionale, che sottofinanzia il sistema, e i Presidenti di regione, cui sono lasciate mani libere per la gestione, senza meccanismi di controllo e garanzia per i loro cittadini. Gli interventi nazionali, con i piani di rientro, hanno mirato solo a obiettivi finanziari, disinteressandosi della fornitura, in quantità e qualità, dei servizi per i cittadini. La griglia LEA è un mero esercizio descrittivo, senza effetti. Temi spinosi: ai partiti nazionali servono esponenti locali che garantiscono consenso; e tuttavia il rischio, palpabile, è di perdere il sostegno dei cittadini che nell’azione di quegli esponenti politici locali stentano a vedere il perseguimento di interessi generali.
Queste disuguaglianze rischiano di acuirsi ulteriormente, addirittura di essere legittimate da norme di legge, con l’autonomia regionale differenziata. Per due motivi di fondo. Perché l’abnorme estensione delle richieste può frantumare fondamentali politiche pubbliche italiane, facendo perdere loro la dimensione nazionale: con effetti nefasti tanto sulla loro efficienza quanto sulla loro equità. E perché esse sono basate sul principio, contrario ai precetti costituzionali, che comunità più abbienti abbiano in quanto tali diritto a maggiori servizi.
Lo strumento per ottenere quest’ultimo risultato è l’aliquota di compartecipazione al gettito dei tributi erariali, di cui pochissimo si discute. Che verrebbe definita in sede pattizia, extraparlamentare, fra Stato e ciascuna regione; e che, data la rilevante dimensione sia delle materie sia delle regioni coinvolte, potrebbe mettere in crisi il sistema fiscale nazionale e deresponsabilizzare totalmente i Presidenti di regione, liberi di spendere senza vicoli di destinazione risorse ottenute dalla tassazione nazionale.
Fuorviante e pericoloso è il tema dei LEP connesso all’autonomia differenziata. Fuorviante, perché, se è vero che non sono stati finora definiti, con la riforma 1.14 del PNRR l’Italia ha assunto l’obbligo con l’Unione Europea a quantificarli totalmente entro il 2026. Fuorviante, ancora, perché la Commissione Cassese ha deciso di lavorare solo sulle materie potenzialmente trasferibili dallo Stato alle Regioni, e non su quelle già di potestà regionale e comunale. Pericoloso, perché appare sempre più chiaro il tentativo di definirli in modo tale da non rendere teoricamente necessarie nuove risorse, specie al Sud. La recente proposta del Sottogruppo apposito della Commissione Cassese (incidentalmente, presieduta da un ex parlamentare del PD) – che si è provato a tenere accuratamente nascosta – di tarare i fabbisogni finanziari su un ipotetico costo della vita appare gravissima; specie perché la successiva quantificazione monetaria in base anche a quel criterio, è affidata a una Commissione (la Commissione Tecnica Fabbisogni Standard, CTFS) sulla cui terzietà gravano pesantissimi dubbi, sia per la sua attuale composizione sia perché presieduta da una esperta già consulente della regione Veneto proprio in questo ambito (e di cui sarebbe opportuna la sostituzione).
Fra i fantasiosi argomenti dei sostenitori dell’autonomia regionale differenziata, cioè della “secessione dei ricchi”, ve ne è uno che coglie nel segno. Si dice: contrastare l’autonomia regionale differenziata significa schierarsi per il mantenimento dello status quo. Per le riflessioni che sono state qui sommariamente proposte, al contrario, lo status quo va incisivamente cambiato. Opporsi all’autonomia differenziata è importantissimo; questa battaglia sta compattando le attuali opposizioni, un esito nient’affatto garantito solo pochi mesi fa. Ma è solo una parte del compito, assai sfidante, che le attende.
Da esponenti di quelle forze politiche vengono avanzate proposte assai diverse; da “attuare un’ampia autonomia differenziata anche se con modalità diverse da quelle previste dalla legge 86/2024”, a “attuare un’ampia devoluzione simmetrica di competenze a tutte le regioni a statuto ordinario”, fino, all’opposto, a “riaccentrare gran parte o tutte le competenze esercitate dalle regioni”. Si è definito ciò a cui si è contro, ma non è chiaro ciò a cui si è a favore.
Alcune delle questioni più importanti su cui occorrerebbe formulare coerenti proposte politiche sono state sommariamente ricordate in questo intervento. In linea generale, due potrebbero essere le linee di una proposta politica. In primo luogo, sarebbe opportuno che le forze politiche assumessero il tema delle disparità territoriali nei diritti come una essenziale, prioritaria, componente della loro iniziativa contro le disuguaglianze. Non sono questioni da tecnici, di algoritmi per il calcolo di costi standard e di fabbisogni. Non sono questioni delegabili ad accordi fra Presidenti di regioni o Sindaci. Non si tratta di questioni di esclusivo interesse dei meridionali.
La mancanza dell’asilo nido per i bambini piccolissimi e le loro madri in molte aree del paese è una questione politica nazionale: lo si è detto all’inizio, perché attiene all’uguaglianza, alla crescita economica, al consenso. Richiede la costruzione di un forte, non scontato, consenso sulla circostanza che, mantenendo elevati standard di servizio laddove sono già raggiunti, sia prioritario destinare risorse aggiuntive per i territori dove i diritti non sono esigibili. Come è stato già fatto quando sono stati fissati proprio i LEP per gli asili nido (e per gli assistenti sociali). È questo approccio politico complessivo che poi dovrebbe guidare e indirizzare tutte le complesse scelte di dettaglio; offrendo ai cittadini di quei territori un’alternativa, diversa sia dalla fuga (dai territori o dal voto) sia dalla tentazione di una protesta vociante ma sterile.
La seconda potrebbe essere quella di costruire proposte ambiziose ma fattibili. Rifuggendo da due opposti approcci, altrettanto deleteri. Da quello per cui le esigenze del risanamento di bilancio vengono prima di ogni altra considerazione, e impediscono qualsiasi riequilibrio perché “non vi sono risorse”. Proprio le vicende italiane degli anni Dieci hanno mostrato come meri tagli alle spese non risolvano i problemi di finanza pubblica, deprimendo il PIL e occorrono invece investimenti pubblici: non solo fisici ma anche nei servizi, nella salute, nell’istruzione. E da quello, illusorio, che il riequilibrio sia semplice, le soluzioni a portata di mano, il raggiungimento di LEP in tutte le aree del paese del tutto possibile; magari semplicemente cambiando governo: una prospettiva decisamente poco credibile.
Si potrebbe invece perseguire una strada autenticamente riformatrice, idealmente chiara ma operativamente pragmatica. La costruzione di obiettivi di legislatura di progressivo miglioramento (tecnicamente, di “obiettivi di servizio”) dei servizi pubblici laddove sono più carenti; quantificati, raggiungibili e monitorati insieme ai cittadini.
* Intervento al seminario “Rilanciare l’economia. Dare valore alle persone”, organizzato dalla Fondazione Demo e dai Gruppi parlamentari del Partito Democratico, Senato, Roma, 14.10.2024.