Lotta alla pandemia e riforma della sanità pubblica non sono separabili

di Alfonso Gianni - quotidianosanita.it - 31/03/2021
Perché non c’è un prima e un dopo, nel senso che ora bisogna sconfiggere il virus e un domani potremo mettere mano alla riforma del nostro sistema sanitario. Ce lo dice la storia: solo grandi e gravi avvenimenti hanno la forza di smuovere le intelligenze e le coscienze ai fini di aprire la strada ai cambiamenti sul piano sociale, politico e normativo

Che il pungente pamphlet di Ivan Cavicchi (La sinistra e la sanità) abbia colto nel segno, lo si può anche dedurre, per contrasto, anche da una frase pronunciata nella lunga conferenza stampa che il Presidente del Consiglio Mario Draghi ha tenuto in occasione del varo da parte del Cdm del cosiddetto decreto sostegni.
 
“Sul Mes occorre essere pragmatici, al momento il livello dei tassi è tale per cui prenderlo non è una priorità – ha detto Draghi - Ma c’è un motivo più importante: il Mes è investito nella Sanità e quando avremo un piano per la Sanità condiviso allora forse verrà il momento di chiedersi se vale la pena. Altrimenti prenderlo senza un piano significa buttare i soldi”.
 
Draghi fa dunque due affermazioni, su cui conviene soffermarsi. La prima richiama una sua peculiarità, molto esaltata dai mass-media che guardano a lui con favore – cioè quasi tutti – ovvero il pragmatismo. La seconda contiene una verità pesante e cioè che senza un piano i soldi presi, da qualunque parte provengano, più che spesi verrebbero buttati.

 
Puntiamo rapidamente l’attenzione sulla prima affermazione per poi soffermarci sulla seconda, ai nostri fini ancora più rilevante.
 
Draghi mostra di considerare l’opportunità o meno di utilizzare il Mes solo sotto un profilo strettamente economico. Giustamente afferma che stante l’attuale tasso degli interessi il risparmio del ricorso al Mes sarebbe minimo. Per così dire il gioco non varrebbe la candela. Peccato che in questo pragmatismo contabile sparisca la vera ragione per cui sarebbe bene evitare di rivolgersi al Mes, come infatti nessuno dei paesi della Ue ha finora fatto e neppure mostrato l’intenzione.
 
Il pericolo contenuto in un eventuale ricorso al Mes non sta tanto, quantomeno non solo, nella reintroduzione di memorandum sul modello greco o nella ricomparsa della famigerata “troika”, oppure nella eventuale retroattività di quelle misure di “riforma” dell’organismo momentaneamente accantonate, quanto in una serie di ulteriori ragioni che dovrebbero consigliare di evitarlo. Il suo ricorso appare nettamente in contraddizione con la parte migliore dell’accordo sul Recovery Fund, perché il Mes è un organo intergovernativo, quindi accrescerebbe proprio i limiti e il lato negativo di quell’accordo, facendo rivivere vecchie logiche e strumenti che in qualche modo si vorrebbero superare, con la formazione di un debito comu8ne e di un bilancio europeo alimentato non solo dai trasferimenti degli stati membri, ma anche da una tassazione transnazionale.
 
L’attuale Mes, non va dimenticato, in fondo altro non è che una banca e come tale agisce sempre nell’interesse dei creditori. La famosa dichiarazione politica firmata da Gentiloni e Dombrovskis non ha la forza di per sé di modificare i regolamenti in essere, in specifico il 472/2013, che prevede, al di là della questione Mes, che ogni stato membro della Ue può essere sottoposto a una procedura di “sorveglianza rafforzata” nel caso di “gravi difficoltà per quanto riguarda la sua stabilità finanziaria, con probabili ripercussioni negative su altri Stati membri della zona euro”.
 
Questo può avvenire a prescindere dall’intervento o meno del Mes, ma l’esposizione debitoria nei confronti di quest’ultimo potrebbe rendere più probabile e facile il verificarsi di tale circostanza e l’attivazione di una simile procedura. Bisognava quindi cambiare formalmente e sostanzialmente quel regolamento. Poiché i regolamenti non sono tavole della legge, si è invece perduta una possibile occasione per una loro modificazione, mettendo contemporaneamente alla prova la sincerità politica, o meno, della citata dichiarazione dei due alti esponenti del sistema di governo della Ue.
 
Che il Mes, soprattutto se venisse riformato in peius secondo linee già emerse la cui deliberazione è stata finora solo rimandata, resti in ogni caso assai poco appetibile è cosa del resto già acquisita anche tra gli economisti mainstream. Ignazio Angeloni, ad esempio, research fellow presso la Harvard Kennedy School di Cambridge (Massachusetts), propone per il post pandemia, comunque in occasione del cambio della guardia alla direzione del Mes, prevista per l’ottobre 2022, che esso “cambi pelle” e funzioni, assumendosi quelle che lo farebbero assomigliare a un Fondo monetario internazionale (Fmi) su scala europea.
 
Ma è soprattutto la seconda affermazione di Draghi che qui ci interessa sottolineare. Essa dice chiaramente che non c’è un piano per la sanità e che esso sarebbe indispensabile per evitare che le sovvenzioni i soldi presi a prestito vengano dal tutto sprecati o gettati alle ortiche. Ma il piano per la sanità che manca, se si vuole andare a fondo delle cause che la rendono se non inefficiente certamente molto al di sotto delle necessità, non può che essere inquadrato in quella “quarta riforma” di cui ci parla Ivan Cavicchi nel suo libro, ovvero nel superamento in positivo e lungo la stessa ispirazione di fondo degli inevitabili limiti della riforma del 1978, la 833, nel solco della piena implementazione dell’articolo 32 della nostra Costituzione. Cosa che le due leggi successive, la 502/92 e la 229/99 si sono ben guardate di fare. Anzi.
 
Non si tratta di un aggiornamento dovuto al fatto che dalla 833 ci separano orami più di quarant’anni. Ma, come dice esplicitamente Cavicchi, di “riscrivere gli articoli 1 e 2 della 833 con l’obiettivo di ricontestualizzare l’articolo 32 (Cost.), che così resterebbe invariante”. Quello che un “riformatore di sinistra” dovrebbe dire, scrive Cavicchi, è “che la salute è un diritto” -“fondamentale” come recita il citato articolo 32- ma anche un dovere non solo dell’individuo ma della comunità”. Soprattutto con questa pandemia i contagi dipendono certo dal virus ma anche dai comportamenti individuali e sociali delle persone quindi da come si comporta una comunità.
 
Davanti al virus una comunità ha diritto di essere curata ma nello stesso tempo ha il dovere nei limiti del possibile di non fare il suo gioco assassino.
Roberto Esposito, docente di filosofia teoretica presso la Scuola Normale Superiore in uno dei suoi ultimi e numerosi libri ha appunto scritto che “Ogni volta che si afferma un diritto, una soglia è varcata, un confine trasgredito. I diritti di volta in volta istituiti modificano i rapporti di forza da cui conseguono, contestando i poteri vigenti fino a forzare i limiti dell’ordinamento giuridico preesistente.” (
Roberto Esposito, Pensiero istituente. Tre paradigmi di ontologia politica”, Einaudi, Torino 2020).
 
Ed è infatti ciò che successe negli anni immediatamente precedenti alla grande riforma del 1978, ove un largo movimento, fatto di sindacati, di forze politiche, di intellettualità, di operatori in campo sanitario, di lavoratori, di “comunità scientifiche allargate” (cui ho fatto riferimento nella mia prefazione al libro di Cavicchi) mutarono appunto i rapporti di forza sociali e politici e oltrepassarono i confini dell’ordinamento giuridico preesistente, imponendo un nuovo concetto di salute.
 
Ma i grandi cambiamenti sociali, politici o istituzionali non sono fissati una volta per tutte. Sono oggetto di contesa continua. E in questi ultimi quarant’anni sono più i regressi che non i progressi ad avere segnato la scena. E la salute pubblica ne porta le conseguenze tra le più pesanti. E mentre si restringeva il campo e il concetto stesso di salute pubblica, avanzava una concezione privatistica degli stessi. E la crisi, ideale, politica, organizzativa della sinistra era insieme la causa e la conseguenza di questi processi negativi.
 
La pandemia in corso ha scoperchiato il vaso di pandora. Ne è uscito un po’ di tutto. Gli insopportabili vincoli della proprietà intellettuale, della brevettazione di un bene comune “sociale” come è un farmaco essenziale o salva-vita, categoria nella quale si devono includere i vaccini anti Covid, che bisognerebbe assolutamente superare e contro la quale si sono pronunciati appelli di autorevolissimi scienziati e su cui è in corso una raccolta di firme per promuovere un’iniziativa dei cittadini europei (Ice) che imponga alle istituzioni europee una nuova legislazione in materia.
 
Mentre nel nostro paese si sono rese evidenti tutte le aporie implicite nella frettolosa “riforma” del Titolo V della Costituzione, con l’esplodere del contrasto di competenze fra Stato e Regioni, che certamente verrebbe ancora peggiorato se dovessero andare in porto le proposte di “autonomia differenziata” portate avanti dalla Lombardia, dal Veneto e dall’Emilia Romagna.
 
E’ stato importante leggere 
nell’intervento in questo dibattito di Stefano Bonaccini, presidente della regione Emilia Romagna, che “senza sanità pubblica, il nostro sistema non avrebbe retto l’urto di questo tsunami”. Ma ad una simile affermazione andrebbe accompagnata la sottolineatura della urgente necessità di bloccare l’avanzata delle strutture sanitarie e delle assicurazioni private in campo sanitario, come ha anche osservato nel suo intervento in questa discussione Vittorio Agnoletto. Così come bisognerebbe farsi una ragione, una volta per tutte e per tutti, della improponibilità della scelta dell’autonomia differenziata.
 
Recentemente la Corte Costituzionale si è espressa sulla materia, almeno per quanto riguarda l’inderogabile e urgente aspetto della lotta alla pandemia. Il 13 marzo scorso ha depositato una sentenza nella quale si chiarisce che la profilassi internazionale spetta in via esclusiva allo Stato e che deve essere “comprensiva di ogni misura atta a contrastare una pandemia sanitaria in corso, ovvero a prevenirla”. D’altro canto, come afferma Sabino Cassese (
Corriere della Sera del 24 marzo) “C’è una evidente sproporzione tra la decisione di affidare alla Unione europea l’approvvigionamento dei vaccini e quella di fare dipendere la loro somministrazione dai piani regionali”.
 
Proprio queste ultime considerazioni ci devono portare alla convinzione che non c’è un prima e un dopo, nel senso che ora bisogna sconfiggere il virus e un domani potremo mettere mano alla riforma del nostro sistema sanitario. Ce lo dice la storia: solo grandi e gravi avvenimenti hanno la forza di smuovere le intelligenze e le coscienze ai fini di aprire la strada ai cambiamenti sul piano sociale, politico e normativo. Il domani, se ci sarà, comincia ora. Non bisogna sprecare la crisi, come ha scritto un’autorevole economista come Mariana Mazzucato (
Non sprechiamo questa crisi, Laterza, Roma-Bari 2020).
 
Solo che non sta scritto da nessuna parte che tali cambiamenti avvengano in meglio. Ci vuole un concorso di forze che spingano in questa direzione. Ci vuole una soggettività che guidi quel processo. Per questo Cavicchi chiama in causa la Sinistra. Egli sa bene, quanto e meglio di me, che una forza politica degna di quel nome oggi è divisa o ridotta a poca cosa, almeno nel nostro paese. Ma se appunto vogliamo rigenerarla, convinti della sua indispensabilità per la giustizia sociale ed ambientale, bisogna farlo a partire da grandi problemi concreti. Quello della lotta alla pandemia, perché nessuna parte dell’umanità di questo globo terrestre rimanga priva dei vaccini, dei farmaci e dell’assistenza sanitaria indispensabili al contrasto della pandemia. Quella della difesa e della riforma in melius del Servizio Sanitario Nazionale.
 
Mentre mi avvio alla conclusione di questo articolo, mi torna alla mente, potrei dire davanti agli occhi, l’immagine di un grande maestro che ho molto stimato, Stefano Rodotà, mentre in uno dei suoi ultimi interventi pubblici, con la voce già incrinata da un male che non gli avrebbe lasciato scampo, rendeva un omaggio commosso e commovente alla professionalità e allo scrupoloso esercizio del dovere della cura, alle lavoratrici e ai lavoratori del servizio sanitario pubblico.
 
Alfonso Gianni

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