Un regime che mira agli occhi, al viso, al seno e ai genitali delle donne che gli manifestano contro pacificamente rivendicando vita e libertà, e mira proprio lì per "colpire la bellezza", è un regime condannato a finire molto presto negli scantinati della storia per non aver capito che quando la libertà femminile si mette in moto non c'è modo di disciplinarla e irreggimentarla. Un regime che impicca un ragazzo di ventitrè anni reo di aver partecipato a una manifestazione, ostruito una strada di Teheran e ferito un paramilitare, e lo accusa di "inimicizia contro Dio" dopo averlo costretto a confessare sotto tortura, è un regime arrivato al capolinea, che ha un bisogno disperato di mostrare i muscoli all'interno e al mondo intero mentre tuttavia tratta in segreto una via di fuga all'estero per i suoi aguzzini.
Mohsen Shekari, cui non è stato concesso nemmeno un ultimo saluto dei familiari, non è la prima e purtroppo non sarà l'ultima vittima della feroce reazione del governo della Repubblica islamica al movimento di rivolta innescato dalla morte di Masha Amini: altri 11 giovani sono già stati dichiarati in lista d'attesa per l'esecuzione, anche loro condannati senza processo e seviziati, mentre la conta dei morti a causa della repressione arriva a 475 di cui 6 minorenni, e quella delle/degli arrestete/i a 18mila. Ma la feroce reazione del regime non basterà a domare una rivolta che non si ferma, malgrado le reazioni tardive e di superficie dei governi occidentali e delle organizzazioni internazionali, che purtroppo non si sa più a che cosa servano.
Per questo mi auguro che domani la marcia convocata a Roma dal partito radicale in solidarietà con le donne e gli uomini iraniani in rivolta, alla quale purtroppo non potrò partecipare non essendo in città, sia grande ed efficace, pur non condividendo alcune delle motivazioni portate a suo sostegno: ci sono circostanze in cui le ragioni di una mobilitazione superano i distinguo culturali e politici sulla posta in gioco, e questa è una. Con l'auspicio però che di quello che sta accadendo in Iran si possa parlare d'ora in poi con maggior cognizione di causa. Perché purtroppo ne sappiamo ancora troppo poco, malgrado il lavoro prezioso fatto da alcune testate (radioradicale in primis) e malgrado gli altrettanto preziosi seminari convocati nelle ultime settimane da università e fondazioni culturali.
L'Iran è un paese complicato, che periodicamente si rivela decisivo per le sorti del mondo, ma che è difficile decifrare dall'esterno e che è sbagliato giudicare sulla base di codici e parametri occidentali, già clamorosamente smentiti in passato. E' difficile raccontare oggi alle generazioni più giovani l'impatto spiazzante che sulla generazione degli anni Settanta ebbe la rivoluzione khomeinista, quando frotte di studenti iraniani che popolavano le nostre università, le nostre assemblee e le nostre lotte, si affrettarono a rientrare nel loro paese per sostenere quella che immaginavano come una rivoluzione marxista (una "rivoluzione contro il Capitale", come all'epoca titolò persino l'autorevole settimanale del Pci "Rinascita") e che presto si risolse nell'instaurazione del regime fondamentalista e liberticida della Repubblica islamica. Analogamente mi pare assai incauto, oggi, leggere l'attuale movimento di rivolta contro il regime come una promessa di democratizzazione, laicizzazione e occidentalizzazione dell'Iran (ovvero come l'ennesima tappa della magnifica e progressiva laicizzazione, democratizzazione e occidentalizzazione del mondo): una lettura certo conveniente, sul piano geopolitico, al fronte occidentale in guerra contro i regimi "autocratici", ma non sappiamo con quanti effettivi riscontri nella società iraniana.
Del resto, è proprio l'egemonia femminile nel movimento di rivolta a suggerire chiavi di lettura diverse e più complesse. Perché se da un lato dimostra, se ce ne fosse ancora bisogno, quanto la rivolta antipatriarcale sia centrale e cruciale ad ogni latitudine del pianeta e nella crisi di civiltà che tutto il pianeta sta vivendo, dall'altro lato è l'esito di una libertà femminile che in Iran è cresciuta senza tradursi nel lessico occidentale dei diritti, come sa bene chiunque abbia visto una mostra o un film di una interprete finissima della società iraniana e al contempo di quella americana come Shirin Neshat. E' il miracolo della "libertà senza emancipazione" delle donne iraniane - come titolava un numero profetico della rivista femminista "Via Dogana" del giugno 2002 - che oggi ci regala i suoi frutti.
Mohsen Shekari, cui non è stato concesso nemmeno un ultimo saluto dei familiari, non è la prima e purtroppo non sarà l'ultima vittima della feroce reazione del governo della Repubblica islamica al movimento di rivolta innescato dalla morte di Masha Amini: altri 11 giovani sono già stati dichiarati in lista d'attesa per l'esecuzione, anche loro condannati senza processo e seviziati, mentre la conta dei morti a causa della repressione arriva a 475 di cui 6 minorenni, e quella delle/degli arrestete/i a 18mila. Ma la feroce reazione del regime non basterà a domare una rivolta che non si ferma, malgrado le reazioni tardive e di superficie dei governi occidentali e delle organizzazioni internazionali, che purtroppo non si sa più a che cosa servano.
Per questo mi auguro che domani la marcia convocata a Roma dal partito radicale in solidarietà con le donne e gli uomini iraniani in rivolta, alla quale purtroppo non potrò partecipare non essendo in città, sia grande ed efficace, pur non condividendo alcune delle motivazioni portate a suo sostegno: ci sono circostanze in cui le ragioni di una mobilitazione superano i distinguo culturali e politici sulla posta in gioco, e questa è una. Con l'auspicio però che di quello che sta accadendo in Iran si possa parlare d'ora in poi con maggior cognizione di causa. Perché purtroppo ne sappiamo ancora troppo poco, malgrado il lavoro prezioso fatto da alcune testate (radioradicale in primis) e malgrado gli altrettanto preziosi seminari convocati nelle ultime settimane da università e fondazioni culturali.
L'Iran è un paese complicato, che periodicamente si rivela decisivo per le sorti del mondo, ma che è difficile decifrare dall'esterno e che è sbagliato giudicare sulla base di codici e parametri occidentali, già clamorosamente smentiti in passato. E' difficile raccontare oggi alle generazioni più giovani l'impatto spiazzante che sulla generazione degli anni Settanta ebbe la rivoluzione khomeinista, quando frotte di studenti iraniani che popolavano le nostre università, le nostre assemblee e le nostre lotte, si affrettarono a rientrare nel loro paese per sostenere quella che immaginavano come una rivoluzione marxista (una "rivoluzione contro il Capitale", come all'epoca titolò persino l'autorevole settimanale del Pci "Rinascita") e che presto si risolse nell'instaurazione del regime fondamentalista e liberticida della Repubblica islamica. Analogamente mi pare assai incauto, oggi, leggere l'attuale movimento di rivolta contro il regime come una promessa di democratizzazione, laicizzazione e occidentalizzazione dell'Iran (ovvero come l'ennesima tappa della magnifica e progressiva laicizzazione, democratizzazione e occidentalizzazione del mondo): una lettura certo conveniente, sul piano geopolitico, al fronte occidentale in guerra contro i regimi "autocratici", ma non sappiamo con quanti effettivi riscontri nella società iraniana.
Del resto, è proprio l'egemonia femminile nel movimento di rivolta a suggerire chiavi di lettura diverse e più complesse. Perché se da un lato dimostra, se ce ne fosse ancora bisogno, quanto la rivolta antipatriarcale sia centrale e cruciale ad ogni latitudine del pianeta e nella crisi di civiltà che tutto il pianeta sta vivendo, dall'altro lato è l'esito di una libertà femminile che in Iran è cresciuta senza tradursi nel lessico occidentale dei diritti, come sa bene chiunque abbia visto una mostra o un film di una interprete finissima della società iraniana e al contempo di quella americana come Shirin Neshat. E' il miracolo della "libertà senza emancipazione" delle donne iraniane - come titolava un numero profetico della rivista femminista "Via Dogana" del giugno 2002 - che oggi ci regala i suoi frutti.