Come noto, l’insano patto che lega le forze della maggioranza di governo – e che allo stesso tempo è fonte di continui litigi tra loro in merito alla precedenza da dare all’uno o all’altro progetto – si fonda in buona parte sull’intento di fare approvare tre importanti (contro)riforme istituzionali e costituzionali: l’autonomia differenziata (che sta a cuore alla Lega), l’introduzione del premierato (cavallo di battaglia di Fratelli d’Italia) e la separazione delle carriere dei magistrati (in una riforma della giustizia da sempre invocata da Forza Italia, in particolare dal suo defunto fondatore). Se le ultime due riforme sono ancora ai primi passi nel dibattito parlamentare, il disegno di legge Calderoli sull’autonomia differenziata ha superato il voto del Senato e dovrà essere esaminato dalla Camera. Calderoli ha cantato vittoria, anche se il percorso del suo provvedimento è tutt’altro che privo di ostacoli.
È vero che il disegno di legge costituzionale di iniziativa popolare (per abbreviare: Lip) che modifica parti del titolo V della Costituzione, sciaguratamente introdotto dal centrosinistra nel 2001, è stato respinto con voto del Senato (esito tutt’altro che sorprendente, visti i rapporti di forza esistenti), ma la sua presentazione non è stata vana poiché ha permesso di aprire una discussione nel paese, di costringere l’aula del Senato a parlarne e, infine, di unire le opposizioni – da Alleanza Verdi Sinistra fino a Italia Viva, passando per Pd e M5stelle – nel voto a favore della Lip. Di questi tempi non è poco. Ora la Lip, bocciata al Senato, potrebbe essere ripresentata alla Camera dalle forze di opposizione e mettere bastoni tra le ruote del cammino del disegno di legge Calderoli. E vi è la possibilità che una Regione – soluzione per cui si sono già pronunciati il presidente della Giunta campana e quello della Giunta pugliese – promuova «la questione di legittimità dinanzi alla Corte costituzionale entro 60 giorni dalla pubblicazione della legge o dell’atto avente valore di legge», come recita il secondo comma dell’articolo 127 Costituzione. Ed è significativo che la recentissima sentenza n. 27/2024 della Consulta, depositata a fine febbraio, respinga al mittente la richiesta della Valle d’Aosta di vedersi riconosciuta la quota di contributo di solidarietà chiesto nel 2023 alle società dell’energia e maturato nel territorio della regione autonoma, con l’argomentazione che per questa via creerebbe «una tensione nel rapporto tra principio unitario e principio autonomistico (articolo 5 della Costituzione) che potrebbe mettere in crisi le istanze di solidarietà e di eguaglianza del disegno costituzionale». Non solo, ma è possibile che un Comune apra una consultazione tra i cittadini sulla legge: se avvenisse si metterebbe ancora più in luce l’opposizione di parti considerevoli della società civile al progetto governativo che promuove la secessione dei ricchi e il frazionamento dell’Italia in un sistema di staterelli-regione.
Intanto il Consiglio comunale di Napoli, a maggioranza mentre le destre non hanno partecipato al voto, ha deciso di impegnarsi nella lotta contro il disegno di legge Calderoli, fino a facilitare e promuovere le condizioni per la presentazione di un referendum abrogativo. Ad analoghe conclusioni è giunta l’Assemblea generale della Cgil del 27 febbraio nell’ambito della decisione (i cui dettagli verranno discussi in seguito) di proporre referendum anche su importanti questioni sociali quali i licenziamenti individuali, la precarietà del lavoro e gli appalti, aggiungendo il proprio impegno per un No nell’eventuale referendum “confermativo” sul premierato, una volta che la legge costituzionale avrà completato il suo lungo percorso. La strategia referendaria coinvolge, dunque, sempre più soggetti e allarga il ventaglio dei propri obiettivi. Così, parallelamente, si susseguono le manovre per evitare che si giunga ai referendum.
Nei confronti dell’ipotesi di un referendum sulla legge Calderoli e sulle singole intese in materia fra Stato e Regioni si è subito alzato un muro di obiezioni. Un muro, peraltro, non invalicabile. La tesi (sostenuta ad esempio da Michele Ainis, costituzionalista di riferimento de la Repubblica) secondo cui un quesito referendario abrogativo del disegno di legge Calderoli e delle intese fra Stato e Regioni sarebbe inammissibile trattandosi di provvedimenti rientranti nel novero delle leggi “costituzionalmente necessarie” appare intrinsecamente debole posto che – come ha osservato di recente Massimo Villone – tale tipologia di leggi non può essere allargata in modo da limitare la via referendaria a un numero ristrettissimo di casi. Più serio l’ostacolo derivante dall’essere il disegno di legge Calderoli, per dichiarazione del Governo, un “collegato” alla legge di bilancio, circostanza che, in una interpretazione restrittiva, lo farebbe ricadere nel divieto di referendum abrogativi previsto per le leggi tributarie e di bilancio dall’articolo 75, secondo comma, Costituzione. Così, seguendo una linea restrittiva quale quella impressa dalla sentenza della Consulta n. 16 del 1978, sarebbero escluse da un referendum le singole intese tra Stato e Regioni, in quanto leggi “rinforzate”, ovvero approvate con maggioranza assoluta dei membri del Parlamento. In entrambi i casi, comunque, la richiesta referendaria riaprirebbe la discussione su interpretazioni del dettato costituzionale che, per quanto autorevoli, tendono a limitare l’esercizio di un fondamentale strumento di democrazia diretta quale il referendum.
Nessun dubbio, invece, sulla possibilità di ricorso al referendum “confermativo” – su richiesta di un quinto dei membri di una Camera o di 500mila elettori o di cinque Consigli regionali – in relazione all’eventuale legge costituzionale istitutiva del premierato ove la stessa non sia approvata in seconda votazione dai due terzi dei componenti di ciascuna delle due camere. Così, al fine di valicare tale soglia, sono cominciate le manovre per aggiungere voti a quelli delle destre e dei renziani. A ciò va prestata la massima attenzione.
La maggioranza di governo è dovuta ricorrere a modifiche al testo, viste le sue evidenti incongruenze. Ma le modifiche apportate non migliorano il primitivo disegno di legge, anzi per molti aspetti lo peggiorano e lo rendono più confuso e contraddittorio. Basta l’esempio di cosa succede a seguito di una fiducia negata al Governo. Il testo emendato si dimentica di regolamentare il caso della bocciatura della questione di fiducia posta dal Governo su una norma di legge, come l’articolo unico di conversione di un decreto legge (caso assai frequente), o su un emendamento. Che deve fare in questo caso il Presidente della Repubblica? Sciogliere le camere o cercare di mettere in piedi un nuovo governo? O che altro? Il nuovo testo non lo dice, il che è indice – come ha scritto in Francesco Pallante (https://volerelaluna.it/controcanto/2024/02/26/gli-aspiranti-riformatori-della-costituzione-e-la-resurrezione-dei-morti/) – di un dilettantismo o di un cinismo senza pari o, aggiungerei, di entrambe le cose. Al di là di qualche correzione la sostanza del disegno rimane inalterata. La presidente del Consiglio vuole annichilire la funzione del Parlamento e del Presidente della Repubblica, in modo da lasciare mano libera al o alla premier eletto/a dal popolo, dando così vita alla Terza Repubblica. Per farlo deve smantellare il carattere parlamentare del sistema e l’equilibrio tra i poteri. Lo vuole fare tramite uno stravolgimento del testo costituzionale e una nuova legge elettorale marcatamente maggioritaria (non importa se espressamente prevista in Costituzione o meno). Il focus dello scontro con il Governo e le destre è su questo punto. E non può e non deve essere evitato. Tale disegno si può solo sconfiggere non emendare.
Eppure fin d’ora si stanno attivando i cosiddetti “pontieri”, che vogliono “smussare gli angoli” per trovare un’intesa in modo da giungere all’approvazione del testo con un numero di voti superiore ai due terzi. Se ne è avuta una prima prova in una recente riunione tenutasi a Roma al teatro Sala Umberto, ove dal palco si sono alternati, tra gli altri, l’ex presidente del Senato Marcello Pera, l’ex segretario degli allora Ds Piero Fassino, Enrico Morando e Stefano Ceccanti, Gaetano Quagliariello e Peppino Calderisi in uno schieramento bipartisan che vuole fare da congiunzione tra maggioranza e opposizione parlamentare. In quella occasione si è evocato, da parte di più d’un oratore, il cosiddetto “lodo Barbera”, cioè il meccanismo di elezione proposto anni orsono da Augusto Barbera (ora presidente della Consulta), basato su un sistema di votazione a due turni, nel primo dei quali il candidato premier viene indicato sulla scheda elettorale in collegamento alla lista o alle liste che lo sostengono, mentre nell’eventuale ballottaggio si procede ad elezione diretta. La ministra delle riforme istituzionali Casellati, non disponendo di autonomia di giudizio, ha preso tempo ribadendo che, per il Governo, il cuore del progetto è l’elezione diretta del premier. Nonostante il momentaneo flop, i “pontieri” hanno rinviato la soluzione del problema a dopo le elezioni europee, contando sulla possibile apertura di una nuova fase di decantazione, ove gli schieramenti potrebbero essere meno inclini a uno scontro dagli esiti fatali.
La lotta per impedire lo scippo del referendum è ancora molto lunga. Ogni tentativo di mediazione va respinto alla radice. Non solo perché non eviterebbe l’accentramento dei poteri in un’unica persona, ma anche perché sarebbe clamorosamente contraddittorio impedire al popolo di esprimersi tramite referendum proprio su una legge che vorrebbe affidare al popolo la scelta del premier.