Trump non è un cialtrone da circo

di Paolo Cacciari - comune-info.net - 22/02/2025
A fronte di una realistica valutazione dell’imperatore The Donald circa l’insostenibile costo della guerra, i vassalli europei, traditi nel loro orgoglio, non trovano di meglio che chiedere soldi ai propri sudditi (leggi: superamento del Patto di stabilità) per comprare più baionette e mandare alla morte ancora più soldati

È un terribile errore liquidare Trump come uno sbruffone psicopatico. Il suo lavoro – ahinoi! – lo sta portando avanti. Non per “fare grande l’America” – questo è quello che vuol far credere ai suoi fan – ma, a suo modo, per salvarla. The Trump sa di essersi impadronito di un impero fragile, “dai piedi d’argilla”, zavorrato da “40 mila miliardi di dollari di debito – poco meno di metà del Pil del mondo, presenti nei portafogli di privati, fondi, banche e banche centrali del pianeta” (vedi Federico Fubini sul Corriere della sera del 17 febbraio) e fa quello che pensa debba fare ogni nazione in un mondo iper competitivo regolato dalla logica ferrea del capitalismo: aumentare la capacità produttiva interna per migliorare la bilancia commerciale, tenere alto il valere della moneta per drenare investimenti dall’estero, colonizzare quanto più possibile altri territori per avere accesso a materie prime a basso costo e per garantirsi mercati di sbocco delle merci marchiate Usa, mantenere la supremazia militare (ma senza sprecarla in conflitti “non strategici” come quello ucraino), mantenere alto il morale del proprio popolo in vista dei salassi che gli saranno imposti (smantellamento del welfare, inflazione, tasse al consumo). Poco altro.

A farne le spese sono per prime le persone tenute ai margini del sistema: gli immigranti, quelli che sono dentro i confini fortificati dell’Impero e quelli che non hanno altra alternativa che sperare di entrarci. Per secondi sono le popolazioni delle periferie del Sud globale che cercano di resistere alla rapina delle proprie risorse e del proprio lavoro. Inoltre, – ed è questa la vera novità – ad essere colpiti sono i popoli dei paesi vassalli della costellazione degli stati dell’ex alleanza imperiale nordatlantica che non potranno più godere delle clausole di maggiore favore negli scambi commerciali e nella difesa militare. Infine, ogni essere vivente, umano e non umano pagherà le conseguenze della sfrenata corsa alla predazione della terra, degli oceani, delle foreste, dell’Artico, dello spazio.

Ovviamente, per avere le mani libere nella vera competizione globale che l’Impero si gioca con la Cina e gli altri paesi emergenti, The Tramp deve fare carta straccia di tutti gli accordi, i trattati, i patti di cooperazione internazionale e delle relative istituzioni e agenzie interstatali. L’Onu è il primo della lista. Altro che democratizzazione. Il multipolarismo assomiglia più ad una rissa da saloon che a una danza armoniosa.

Gli Stati Uniti, dopo aver ottenuto tutto ciò che potevano ottenere dalla globalizzazione delle merci e della finanza, sono ora obbligati dalla “stagnazione secolare” dei tassi di profitto a cambiare strada, a rinserrare le fila e provare a ripartire da sé. Per questo hanno bisogno come il pane della retorica patriottica, dei bagni di folla negli stadi, della investitura divina, della reinvenzione della Nazione bianca e di un nuovo grande nemico esterno: la Cina, i Brics e il loro (per ora solo ipotizzato) mezzo di pagamento indipendente dal dollaro per gli scambi internazionali.

No, Trump non è un cialtrone da circo, segue un copione ben studiato, e il trumpismo non è una accolita di sciamani, imbottiti di fake news da canali social e predicatori/trici televisivi/e. Così come le destre-destre europee non sono un rigurgito romantico d’altri tempi. Hanno in testa un disegno di moderna restaurazione dell’”ordine naturale” delle cose: capofamiglia, capofabbrica, capobastone, capi di stato plebiscitati. Forse sono queste cose che accumunano Trump a Putin e, temo, anche a Xi Jinping.

La pericolosa sottovalutazione – da parte dei liberaldemocratici come dei socialdemocratici – dell’avvento delle destre in tutto il mondo dipende dalla rimozione delle ragioni che stanno alla base del loro consenso popolare. Le varie famiglie politiche progressiste e i loro maîtres à penser, ben insediati nelle accademie e nei mass media, sono alla deriva, frastornati e afoni, perché si rifiutano di ammettere la caduta verticale di credibilità e legittimità delle istituzioni rappresentative liberai da loro mitizzate, plasmate e malgovernate. È probabilmente vero: siamo a un passaggio di regime. La lunga golden age del compromesso keynesiano nell’ex Primo mondo è terminata. Siamo entrati nella stag-flation. Non aver preso sul serio e per tempo questa “crisi terminale” (per dirla con Emmanuel Todd, La sconfitta dell’Occidente, Fazi, 2024) del modello sociale liberaldemocratico ha inevitabilmente lasciato dietro di sé una marea montante di insoddisfazioni, risentimenti e odi verso le élite al potere. Dalla lenta decomposizione della “post democrazia” (C. Crunch, 2003) è sorto il nuovo mostro della “internazionale bianca” suprematista, nazionalista, patriarcale, neocolonialista, xenofoba, sessista, classista e tecno-modernista – tanto per gettare un po’ di polvere di stelle negli occhi!. Fino a che le socialdemocrazie e le liberaldemocrazie non faranno i conti con le ragioni del loro fallimento – in tutti i campi: socioeconomico, geopolitico e soprattutto ordinamentale – non riusciranno mai a capire e, quindi, a fronteggiare la nuova situazione. Sono crollate le promesse di benessere (ricordate la retorica del “non lasceremo indietro nessuno”?), di esportazione pacifica della democrazia in ogni dove (ma sotto l’ombrello della Nato), di rigenerazione green del pianeta (ma senza eliminare i sussidi ai fossili). Ma ciò che ha smesso di funzionare è stato proprio il sistema della rappresentanza e dei poteri con la consegna delle decisioni pubbliche ai gruppi di potere economici-finanziari transnazionali (le giant corporation americane) e, a cascata, ai faccendieri sotto casa. Il risultato è stato lo smantellamento del sistema delle imprese e dei patrimoni pubblici, la privatizzazione del welfare, politiche fiscali regressive, inattivismo ambientale. Soprattutto, svuotamento e squalificazione delle assemblee elettive, ridotte ad accrocchi di lobbisti.

Siamo giunti così al più paradossale e – questo sì, sorprendente – rovesciamento mentale, prima che politico e geopolitico, sulla questione della guerra in Ucraina. A fronte di una realistica valutazione dell’imperatore The Donald circa l’insostenibile costo della guerra, i vassalli europei, traditi nel loro orgoglio, non trovano di meglio che chiedere soldi ai propri sudditi (leggi: superamento del Patto di stabilità) per comprare più baionette e mandare alla morte ancora più soldati. Se questi sono gli eletti, i custodi dell’ordine democratico, povere liberaldemocrazie. Non si stupiscano poi se il “popolo sovrano” cerca altre vie per farsi rappresentare.

Paolo Cacciari

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