Ed eccoci arrivati al dunque. Molti dei nodi di cui si dibatteva nei mesi scorsi stanno giungendo inesorabilmente al pettine: escono, cioè, dalla dimensione delle ipotesi e delle analisi, precipitando sui famosi “rapporti di produzione” e sulle catene di comando che strutturano la società. Del resto, tutta la decretazione speciale, i coprifuoco, la militarizzazione dei territori, la passivizzazione di massa – l’intero sistema di “prevenzione sanitaria” – non potevano non avere ricadute sul piano direttamente politico. Un primo riassetto riguarda i piani alti; abbiamo un governo di pseudo unità nazionale in cui l’intero quadro partitico è stato azzerato, frullato e ricomposto dentro un triste impianto euro-tecnico: l’eutanasia di un ceto politico, di una classe dirigente, di un residuo partitocratico, si è consumata in un lampo, senza emettere un gemito.
Tra le pieghe della società reale stanno invece increspandosi le onde della repressione politica tradizionale: ci riferiamo in particolare all’inchiesta di Piacenza contro i Si Cobas e a tutto il corollario di provocazioni con le quali si sta cercando di schiacciare all’angolo questa esperienza sindacale. Gli esiti dell’offensiva della Procura di Piacenza, sono noti: perquisizioni all’alba del 10 marzo nelle case di diversi operai, sequestri di pc e telefoni, 21 indagati, 5 divieti di dimora, 6 vigliacchissimi avvisi di revoca dei permessi di soggiorno, multe salate per tutti, e due noti dirigenti agli arresti domiciliari. L’accusa, sostanzialmente, è di aver intralciato, mediante una mobilitazione propriamente sindacale, i progetti di ristrutturazione nei magazzini piacentini Fedex-TNT: quindi gli apparati dello Stato a difesa delle strategie di una multinazionale americana. En passant, nelle stesse ore si bastonava il presidio Cobas alla Texprint di Prato – in questo caso la Celere difendeva un’azienda di proprietà cinese, gravata da un’interdittiva antimafia, che ha tra l’altro incassato centinaia di migliaia di euro durante la prima crisi Covid producendo mascherine. Yankee o cinesi vanno bene tutti, purché siano imprenditori – i nostri questori non possono certo essere accusati di sovranismo. Cronache di un mondo rovesciato? No, È il nostro mondo. Altro che Grande Reset: siamo già stati ampiamente resettati e la nuova normalità sarà sempre più questa – banchieri al governo, detenuti morti nelle carceri, sindacalisti coraggiosi arrestati. Non si tratta di un momento di sbandamento o di una fase transitoria.
Che tipo di lettura possiamo dare, di questa nuova stagione repressiva? Innanzitutto è chiaro che si è aperto un cantiere emiliano, che affiancherà stabilmente quello già avviato in Val di Susa molti anni fa. La repressione a questi livelli non può essere dinamica improvvisata. Ha bisogno di un impianto, di metodo, di coordinamento tra apparati di polizia e apparati giudiziari, di continuità di personale, se vuole esercitare il suo fine pedagogico sulla intera società. Questo cantiere repressivo emiliano si occuperà soprattutto di lavoro ed eccedenze sindacali non concertative; le sperimentazioni sono già in corso a Modena, con i suoi maxi processi e, appunto, a Piacenza, nodo nevralgico della distribuzione merci in tutto il nord. Una eccellenza industriale e un grande polo logistico: sarà questo il campo di battaglia su cui si eserciteranno le strategie degli inquisitori. Il “modello emiliano” in decomposizione libera gas mefitici: inchieste, manganellate, arresti e procedimenti giudiziari per larghe platee operaie. È un caso che proprio l’Emilia sia al centro di questo passaggio? L’Emilia che coltiva ancora i suoi rituali fuori tempo, come una vecchia signora che ha visto tempi migliori – la regione in cui si firmano con la medesima disinvoltura, “Patti per il lavoro” e rinvii a giudizio (per chi lavora)? Il modello emiliano è stato spesso additato come modello nazionale in molte cose; perché non potrebbe diventarlo anche nel campo della gestione (repressiva) dei conflitti?
Il dibattito, in questi casi, è aperto: siamo davanti al “semplice” protagonismo di alcune Procure o si possono ipotizzare scenari ancora più generali (e più preoccupanti)? Entrambe le cose. La crisi politica dello Stato e del sistema dei partiti, ha lasciato campo libero all’attivismo di sedi, strutture, pezzi di amministrazione giudiziaria o organi di polizia; il vuoto politico viene riempito dai volenterosi: ad esempio i PM che ammettono candidamente nelle conferenze stampa di aver voluto “lanciare segnali” (attività assolutamente estranea ai loro fini istituzionali) o si arrogano il diritto di rilasciare patenti di legittimità sindacale, rivelano anche dinamiche locali, frammenti “di Stato” che nel vuoto dei centri di indirizzo politico, si autoconvocano per assumere un ruolo guida sui territori.
Allo stesso tempo, è ipotizzabile che qualche progetto più ambizioso, stia incubando ad un livello più generale: qualcosa che provi a spostare l’asticella del disciplinamento sociale ancora più in alto, al di là degli alibi pseudo-sanitari. È probabile che sia già in giro, bello e pronto, un corposo teorema giudiziario, che miri a incasellare il gruppo dirigente Cobas dentro uno schema di associazione a delinquere su base nazionale. Magari questo “malloppo”, costituito dalla solita immensa mole di intercettazioni e ricostruzioni sbirresche, spesso surreali – si possono leggere nei documenti istruttori dei singoli processi locali –, sta già circolando qua e là sui tavoli di qualche Procura di buona volontà, in attesa che qualcuno lo assuma e lo conduca in porto. In questo caso assisteremmo alla miserabile riesumazione – quasi una parodia – dei grandi teoremi politico-giudiziari dei decenni scorsi: anche quelli non pretendevano di incarnare la verità storica, erano solo strumenti di disarticolazione del nemico, di affondo emergenziale dentro un tessuto sociale riottoso, di forzature irreversibili prodotte dentro il corpo stremato dello stato di diritto.
I dirigenti del sindacato Si Cobas dicono che l’aria è pesante come non mai, intorno a loro: lo avvertono in occasione delle iniziative, davanti alle loro sedi o ai loro presidi. La stessa grande manifestazione di Piacenza del 13 marzo, nonostante le regolari autorizzazioni, è stata provocatoriamente rinchiusa dentro un parcheggio, circondata da uno schieramento militare impressionante. Probabilmente qualcuno mirava ad una resa dei conti di piazza, a cui fortunatamente, l’intelligenza politica del corteo si è sottratta. Ma ormai non c’è iniziativa in Emilia – persino in occasione delle conferenze stampa – che non veda una esibizione muscolare delle Questure, in modalità totalmente spropositate. C’è un clima di provocazione “di bassa intensità” che però è costante, come una corda che si sta tendendo. Chi ha le antenne un po’ sensibili, rispetto a questa meteorologia della crisi, avverte l’elettricità nell’aria. Quale momento sarebbe migliore per colpire un’esperienza di sindacalismo eretico? Il lockdown perenne, la sinistra (di ogni sfumatura) squagliata, il consociativismo confederale che vive una pallida stagione di rilancio: oggi puoi arrestare un po’ di gente senza neanche prenderti il fastidio di sentirlo dire al telegiornale. L’asse delle accuse potrebbe essere di tipo “economico-sindacale” – la vostra vertenzialità è estorsiva (quello che si provò a fare nel 2017 a Modena con l’arresto di Aldo Milani); oppure più schiettamente politico – siete un nuovo fronte eversivo da stroncare prima che che sia troppo tardi. O magari un mix delle due ipotesi di reato, tanto per accontentare tutti, nostalgici dell’emergenza e cricche imprenditoriali.
In ogni caso, con una simile pressione addosso, fare sindacato è quasi impossibile: tutto il tuo tempo e le tue energie sono impiegate a rintuzzare colpi e difendere la tua gente, mentre le strategie di accerchiamento anche padronali (vedi l’enorme pressione in molti posti di lavoro per convincere gli iscritti a togliere la tessere ed estirpare gli avamposti sindacali costituiti in questi anni) stanno funzionando a pieno regime. È un problema dei Si Cobas? No. È il “problema dei problemi” che abbiamo tutti in questa fase, movimenti, sindacati conflittuali, scampoli di società civile; e richiama un solo antidoto ed una sola soluzione: rimettere la testa fuori, riassumerci la responsabilità della presa di parola, il dovere dell’esercizio dell’intelligenza critica, l’uscita dalla delega, la messa in discussione delle fallimentari strategie di governance a tutti i livelli, il rifiuto ad intrupparci nelle campagne di “buona cittadinanza” (state a casa, vaccinatevi, lavorate e non vi muovete) a cui ci stiamo assuefando. Molti lo hanno continuato a fare, in questi mesi, ma evidentemente non nella quantità e nella qualità necessaria a incarnare un rifiuto ed un alternativa possibile.
Se provassimo a usare la data del 25 aprile – come già accaduto in stagioni passate –, per innescare una ripartenza necessaria e possibile? Impugnando poche parole d’ordine unitarie, uguali su tutto il territorio nazionale: un appello alle ragioni proletarie della libertà e della vita, al protagonismo di una società esanime che deve risollevarsi; per riconquistare lo spazio pubblico, la visibilità dei nostri corpi, rivendicare i militanti schiacciati dai processi, spegnere gli schermi della “politica a distanza”, con i ridicoli webinar che stanno diventando la tristissima foglia di fico delle nostre impotenze. Un 25 aprile contro la repressione: soprattutto quella che ci stiamo autoinfliggendo. Riflettiamoci – ma non troppo. Il tempo sta scadendo.
Nuove classi dirigenti marciano compatte sulle macerie del nostro vecchio mondo, inalberando i vessilli di Lord Keynes, Milton Friedman e George Orwell – sono tipini pragmatici e usano tutto, alla bisogna. La banalità per cui “ogni crisi è anche un’opportunità”, loro la stanno prendendo maledettamente sul serio.