Il presidente di uno dei più importanti gruppi editoriali e di comunicazione italiani, dopo aver esternato in un video su YouTube su quali grandi opportunità, nella vendita di spazi pubblicitari, la crisi del Covid abbia procurato per le sue aziende, i cui affari sarebbero in crescita del 30 per cento, interviene dal Suo giornale chiedendo al governo di “fare di piu’” lanciando un piano da almeno 300 miliardi, come la Francia.
Idee simili di rilancio, con massicci interventi pubblici di tipo keynesiano, hanno articolato, in diverse sedi e con diversi stili, Silvio Berlusconi e Mario Draghi. Nei giorni scorsi un mio amico mi ha detto di aver acquistato all’inizio della crisi azioni di Zoom, la piattaforma per le videocomunicazioni collettive, che, nel disastro generale delle Borse restate aperte, avrebbero guadagnato già il 30 per cento. Non frequento le Borse, ma a giudicare dal numero di fattorini che consegnano pedalando per Deliveroo o altre piattaforme simili, sono certo che le cose vadano assai bene anche a quel settore. La crisi in altre parole, un fattore esterno, genera impennate nei profitti privati di soggetti che si trovano in diversi posizionamenti strategici. Ma sono profitti o rendite di posizione? Cairo ci informa, ad esempio, che le cose vanno molto bene al suo cliente Conad e al comparto della grande distribuzione. Sono certo che anche Jeff Bezos, sebbene abbia prudenzialmente liquidato azioni per qualche decina di miliardi prima della crisi, non se la stia passando male in prospettiva con Amazon. Lo stesso, a vedere le code in farmacia, presumibilmente è vero per il comparto farmaceutico.
Sorge quindi una domanda: per quale motivo oggi tanti soggetti precedentemente austeri come Draghi, Berlusconi o Cairo (per non parlare di Confindustria), che ci hanno abituato ad affermazioni tipo: “Più mercato e meno Stato!”, oggi hanno cambiato partito? Non sarà che, come purtroppo è la regola nel capitalismo italiano (e non solo), lo Stato si invoca solo per rendere comune il male e garantire in tal modo che il bene possa rimaner privato? La crisi Covid-19 è un male comune, tuttavia essa genera benefici privati per taluno. È possibile che, mentre si invoca la solidarietà, questi profitti (rectius: rendite) che essa stessa genera possono essere assorbiti dalla proprietà privata? In verità questo surplus è un (certo non desiderabile) bene comune prodotto dalle circostanze avverse e come tale va trattato, restituendolo alla collettività. Perché quel surplus di profitto (agevolmente misurabile) che è certamente generato unicamente dalla crisi non deve essere socializzato? Forse di lì un po’ di quei 300 milioni che Cairo giustamente ritiene essenziali per ripartire potrebbero venire e non solo dalla fiscalità generale.
Gli strumenti emergenziali consentirebbero, almeno temporaneamente ai governi, di porre in essere un’operazione simile, lasciando ai privati un livello di utili simile a quello che avevano prima della crisi (magari un po’ maggiorato per compensare i rischi di commessi e lavoratori) ma incamerando temporaneamente al bene comune gli utili in più, generati dalle circostanze, per devolverli al sostegno dei più deboli. La crisi non può essere occasione di rendita di posizione.
La proprietà privata nel nostro ordine costituzionale, informato al principio solidaristico, è garantita nella misura in cui adempie a una “funzione sociale” (art. 42). Ascoltare persone già ricche che si vantano di aver incrementato gli utili e vedere tutte quei fattorini in giro, immaginando i profitti in più di chi è proprietario delle piattaforme di delivery, a me fa venire i brividi. I sindacati (letteralmente dal greco: insieme con giustizia) non dovrebbero dire qualcosa? Perché solo il governo e non anche i privati dovrebbero farsi carico dell’emergenza, non dico concorrendo al costo sociale in solidarietà, ma almeno non approfittandone? Diventiamo pure keynesiani, ma senza dimenticare la rendita privata.