Stiamo vivendo un’epoca che è difficile non descrivere come densa di angoscia e di possibile disperazione: basti guardare alla prepotenza con la quale la guerra è entrata nella dimensione quotidiana delle persone o alle drammatiche conseguenze di una crisi eco-climatica ormai divenuta ordinaria; basti percepire l’abisso sociale che separa i pochi che detengono tutto dalle moltitudini che vivono sotto la soglia di povertà o cogliere l’espropriazione di democrazia prodotta dallo strapotere dei grandi fondi finanziari che governano il pianeta e fanno strame dei diritti delle persone.
Stiamo vivendo un’epoca che deve confrontarsi con un pensiero indicibile fino al tempo presente: se nel corso dei secoli l’umanità ha sempre dovuto fare i conti con la finitezza dell’essere umano, è solo ora che è costretta ad allargare il concetto di finitudine ben oltre il perimetro della mortalità individuale e considerare la possibile fine della specie umana, non come limite dato in sé, ma come conseguenza della propria azione e attività.
Ma forse è proprio il dover guardare le cose per come sono a permettere di riprendere un discorso e di allargare nuove faglie che consentano di parlare di futuro, che, in senso mai così strettamente letterale, o sarà diverso o non sarà.
L’epoca che stiamo attraversando vede tutti i nodi contradditori del modello economico-sociale dominante – il capitalismo – giungere al pettine contemporaneamente: la crisi economico-finanziaria non è più una conseguenza ciclica e periodica del suo normale funzionamento ma è divenuta elemento sistemico e strutturale. La disuguaglianza sociale non ha mai avuto nella storia la medesima forbice del tempo odierno. La crisi ecologica e climatica pone tutte e tutti di fronte al paradosso dell’ampiezza della trasformazione necessaria commisurata al pochissimo tempo a disposizione. In altre parole, il capitalismo sta dimostrando la propria inequivocabile e irreversibile insostenibilità.
Ciò a cui stiamo assistendo è l’insieme di convulsioni successive alla fine della favola liberista che ha attraversato il pianeta negli ultimi quattro decenni: l’idea del benessere diffuso e universale prodotto dalla globalizzazione liberista, con il mercato come unico regolatore sociale. Lungi dall’aver prodotto una ricchezza condivisa, quel processo si è incagliato dentro la contraddizione – insormontabile per il capitalismo – di aver raggiunto una saturazione delle fonti di profitto sprigionate dall’economia reale e nel contempo una analoga saturazione delle fonti di profitto dettate dalla costruzione di un mercato finanziario costituito da ’bolle’, la cui espansione senza limiti non può che provocarne l’esplosione.
Perché il capitalismo, comunque lo si voglia descrivere, non si basa sull’aumento del capitale globale, ma sulla continua capacità di accrescimento dello stesso; ovvero il problema non è quanta ricchezza venga prodotta, ma quanto profitto se ne possa ricavare. Se le condizioni per le quali si possa proseguire una indiscussa profittabilità vengono meno – l’innovazione tecnologica, la razionalizzazione dei sistemi produttivi, la compressione dei salari e dei diritti del lavoro, il commercio estero di impronta coloniale possono fino a un certo punto, ma oltre una determinata soglia non bastano o producono ostacoli – allora il sistema rischia di implodere.
Ed è qui che si situa la nuova dimensione della guerra: non come anomalia della ’pacifica convivenza garantita dal libero mercato’, ma come necessità, se non per risolvere i problemi strutturali del modello capitalistico, almeno per rimandare la presa d’atto della sua insostenibilità. Come fa il passante che, incrociando una lattina abbandonata sul marciapiede, le tira un calcio spingendola in avanti di qualche metro, così la guerra pospone la presa d’atto del fallimento del modello capitalistico e cerca di riaprire, attraverso la distruzione, una nuova stagione di crescita dei profitti basata sulla ricomposizione dei rapporti di forza geopolitici e sui grandi investimenti necessari alla ricostruzione di quanto demolito.
Ma possiamo considerarla poco più che una pia illusione. Se poteva funzionare, dal punto di vista capitalistico, in epoche passate, oggi il quadro d’insieme deve confrontarsi con la crisi eco-climatica che non ammette eccezioni: il capitalismo per poter sopravvivere deve questa volta mettere in conto la morte per guerre, siccità, impossibilità di accesso alle risorse fondamentali di una parte consistente dell’umanità. Ovvero, deve interrompere l’auto-narrazione di sé stesso come il migliore dei mondi possibili per tutte e tutti e affermare chiaramente il totale antagonismo fra i ricchi e i poveri del pianeta. Tertium non datur, e questa volta senza eccezioni.
Per questo, anche nella ricomposizione in atto – fra guerre militari e guerre commerciali – dei rapporti di forza geopolitici, è importante avere la consapevolezza di come la partita in campo richieda niente di meno che una rivoluzione sociale, ecologica e relazionale, dentro ogni territorio e a livello globale.
Per fare questo, occorre da subito abbandonare qualsiasi strategia improntata al ’minormalismo’ (l’idea che vada scelto sempre il male minore), avendo chiaro come il perseguimento dello stesso abbia solo preparato il peggioramento della situazione (ne è un esempio l’Europa, che, intrisa di ’minormalismo’, si ritrova ora attraversata, e in parte rilevante governata, da formazioni sovraniste, fasciste e neo-naziste) e iniziare a produrre una convergenza dei movimenti sociali intorno a una serie di assi fondamentali:
a) Il ripudio della guerra
Se la guerra sta diventando il nuovo paradigma della crisi della società capitalistica, il ripudio della guerra dev’essere il paradigma di chi rivendica un altro modello di società. “Contro la guerra senza se e senza ma” gridava nelle piazze di inizio secolo il movimento altermondialista. Un grido più che mai attuale e ben sintetizzato dalla scelta del verbo ’ripudiare‘ da parte di coloro che hanno scritto l’articolo 11 della nostra Costituzione. La scelta del ripudio non è solo la rinuncia alla guerra, esprime lo sdegno e l’orrore per ogni azione che va in quella direzione, dalle politiche di riarmo alla propaganda militare, dalla definizione del nemico esterno all’autoritarismo interno. Fermare la guerra e la sua penetrazione nell’economia, nella società, nella natura e nelle relazioni è la precondizione di qualsiasi possibilità di futuro.
b) La lotta contro i grandi interessi finanziari
Guerra e finanza costituiscono l’intreccio mortale di quest’epoca. La totale libertà di movimento dei capitali finanziari è la causa primaria delle politiche estrattiviste nei confronti della natura e delle politiche di espropriazione e privatizzazione nei confronti della società. Oggi i grandi fondi finanziari controllano l’intera economia del pianeta e sono in grado di determinare le scelte politiche di tutte le Istituzioni, dal livello locale a quello globale. Il contrasto alla pervasività dei capitali finanziari diventa dirimente per ogni strategia di riappropriazione della democrazia, a partire dalle realtà territoriali per arrivare ai consessi internazionali.
c) La sottrazione della vita al mercato
Il mercato si muove su coordinate spaziali e temporali direttamente in antagonismo con quelle dentro le quali si dipana la vita delle persone: se quest’ultima si svolge dentro uno spazio limitato e dentro il tempo lungo dell’intera esistenza, il mercato si muove dentro uno spazio potenzialmente illimitato (l’intero pianeta), ma con un tempo delle scelte che si riduce agli indici di borsa del giorno successivo. È questo che rende la quasi totalità delle scelte fatte secondo le leggi del mercato in diretto contrasto con i bisogni delle persone e con l’interesse generale. Sottrarre al mercato tutto ciò che riguarda il diritto alla vita e alla sua dignità individuale e collettiva comporta una trasformazione tanto radicale quanto necessaria.
d) La riappropriazione sociale e la gestione partecipativa della conversione ecologica
La crisi eco-climatica incombe e il tempo per intervenire è sempre più ristretto. Ma perché non si finisca nella doppia trappola da una parte della reiterazione del mercato come soluzione (quando è chiaro a tutte e tutti che non può essere parte di alcuna soluzione chi è parte del problema), dall’altra di una sorta di nuovo fascismo ecologico (provvedimenti autoritari e disciplinari nel nome dell’ecologia), occorre una fortissima rivendicazione della riappropriazione sociale dal basso dei beni comuni e una gestione partecipativa che rimetta alla discussione collettiva cosa, come, quanto, dove e per chi produrre.
e) La costruzione dell’orizzonte collettivo della società della cura
Nessuna convergenza è possibile se non condividiamo un orizzonte, che permetta da una parte ’il movimento in direzione di’, dall’altra aiuti a ricondurre dentro quel movimento ogni lotta, vertenza, pratica o esperienza messe in campo qui e ora. Dopo decenni di indiscutibile ideologia del profitto il paradigma della cura può diventare l’elemento di convergenza di tutte le culture ed esperienze altre: perché rappresenta ciò di cui c’è assoluto bisogno in un momento storico in cui è a rischio l’esistenza della vita umana sulla Terra e perché intorno a quel paradigma è possibile costruire una diversa società, che sia eco socialista e femminista invece che capitalista e patriarcale; equa, inclusiva e solidale invece che predatoria, escludente e disuguale.
Sarà forse vero che è più facile immaginare la fine del mondo che non la fine del capitalismo, ma oggi sappiamo che se vogliamo scongiurare la prima, dobbiamo lottare senza quartiere per ottenere la seconda.