Essere vecchi è una colpa? Nell’età cosiddetta moderna lo è sempre stato. Il neoliberismo con la sua spietata ideologia produttiva ha tanto più sancito questa affermazione: chi non produce non serve, tanto più se con la sua pensione ruba il futuro ai giovani. Così si è fatta largo tra i media e la pubblica opinione l’idea di un conflitto di generazioni, in base al quale giovani e vecchi sono (inconsapevolmente) avversari, se non nemici.
Ora con il Covid questa idea, che appena si aveva il coraggio di sussurrare in alcuni ambienti, è venuta alla ribalta: tutto sommato se non ci fossero i vecchi ad occupare le terapie intensive e a morire, il virus potrebbe essere considerato poco più di una banale influenza, perché sono pochi i giovani che muoiono e si ammalano gravemente. In alcuni reparti ospedalieri (quelli sotto stress per i troppi ricoveri) si comincia a pensare che sarebbe giusto dare la precedenza a chi ha maggiore probabilità di sopravvivere (ovvero i giovani). È sbagliato?
Non avremmo mai dovuto affrontare un conflitto di questo genere, ovvero chi far sopravvivere e chi no e il fatto di essere arrivati quasi a questo punto ci dice che c’è qualcosa che non va. E questa volta la colpa non di questa o quella parte politica: tu vecchio avverti che stai sottraendo spazio alle future generazioni, che impedisci loro di svolgere quelle attività ludiche che i giovani hanno sempre svolto, la sera, la notte. Se continuano a farlo, sai che la prossima vittima del virus sei tu.
Perché ai vecchi il coprifuoco non cambia di una virgola la loro vita, ma sono i giovani (quelli chi vivono in famiglia a contatto con i vecchi) che sono costretti a rinunciare a molte delle loro libertà.
Ora i vecchi sono ancora più vecchi perché avvertono che la loro fragilità è esposta a maggiori rischi e dovrebbero reagire (chi può, chi ha la preparazione culturale per farlo) con coraggio accettando prima di tutto la propria realtà demografica senza nasconderla e accettando che il tempo futuro che resta può essere anche breve. Non di rassegnazione si tratta né di passiva attesa, ma essere consapevoli, come non mai prima di adesso, che il progresso e la modernità non hanno cancellato questo destino finale, questo attrattore strano verso il quale tutti convergiamo.
Bisogna avere anche pazienza e tolleranza verso i giovani; non vederli solo come possibili untori, come responsabili del contagio, ma in un’ottica di fratellanza di specie e di rinnovata solidarietà, qualunque sia il destino dei vecchi.
Quello che invece è inaccettabile è vedere la razza padrona, Confindustria in testa, affermare, più o meno esplicitamente, che le “ragioni” dell’economia sono più forti di quelle della salvaguardia della salute. Essi sostengono che sia meglio morire di Covid piuttosto che di economia, ovvero di fame.
Loro che di fame non moriranno di sicuro. Ma se tutti gli Stati (almeno) d’Europa per un momento lasciassero stare le “ragioni dell’economia” e si preoccupassero di destinare tutte le risorse e le infrastrutture per combattere il virus (e i cambiamenti climatici), costi quel che costi, non sarebbe questo l’avvio di un diverso modello di sviluppo?
Un tempo (non so se ancora adesso) quando iniziavano i grandi lavori magari per un traforo di una montagna lungo decine di Km, si predisponevano anche delle bare (ben nascoste agli occhi) perché tra i “danni collaterali” c’era anche la quasi certezza di alcune morti. In compenso la grande opera inaugurava un grande progresso di cui avrebbero usufruito le generazioni future. Vale ancora oggi?