Negano la povertà per eliminare la lotta di classe: ieri, oggi, sempre bell hooks

di Cristina Quintavalla - Ilfattoquotidiano.it - 18/01/2023
La docente - Nel suo “Da che parte stiamo” una spietata analisi della società americana imperniata sul capitalismo borghese, che reputa normale la fame di denaro e altrettanto normale che tutti debbano aspirare a essa. E così gli indigenti sono rappresentati come falliti, incapaci, truffatori, pericolosi, parassiti

La vergogna della classe è quella provata dai poveri e dalle classi lavoratrici negli Usa, rappresentati come falliti, incapaci, truffatori, pericolosi, parassiti, predatori, che preferiscono l’elemosina al lavoro. La povertà viene colpevolizzata come inettitudine personale, ghettizzata fuori dalla società civile in recinti chiusi, da cui non uscire e in cui non entrare, materiale di scarto senza alcun valore della produzione capitalistica. Almeno 38 milioni di esseri umani negli Usa percorrono una dolorosa via crucis, le cui stazioni sono l’invisibilità, l’irrilevanza, il pubblico disdegno, l’assistenza pubblica.

Eppure, scrive bell hooks in Da che parte stiamo. La classe conta, recentemente uscito per i tipi di Tamu, per la traduzione di Marie Moise, l’obiettivo perseguito in modo metodico dall’establishment è quello di rendere invisibile la povertà, negando che esistano ancora le classi sociali. Saremmo addirittura in presenza di una democratizzazione dello status, come asseriva orgogliosamente in prima pagina il New York Times Magazine a proposito della società americana, che sarebbe ormai senza classi, liberata dalle classi. Gli americani, i naturalizzati, gli immigrati – poveri e ricchi – avrebbero sostanzialmente le stesse aspirazioni, gli stessi desideri materiali, sarebbero accomunati dagli stessi valori. Basta l’accesso al credito, al contante, avventurarsi nelle spirali dell’indebitamento privato, lanciarsi in un consumismo sfrenato per abbattere (o illudersi di abbattere) le differenze di classe.

Bell hooks conferma che “Non possedere i segni del successo materiale significa essere etichettati come privi di valore e subire il marchio della vergogna”. Il possesso dei beni materiali, acquisiti non importa come, contribuirebbe a equiparare gli individui.

La cultura del consumismo, più precisamente la cultura dissipatrice dell’obsolescenza, la crescita illimitata di beni da acquisire, consumare, buttare, coniugate con un individualismo e un narcisismo edonistico sfrenati, intesi come viatici verso la felicità, consentirebbero un progressivo avvicinamento tra poveri e ricchi, nel senso della condivisione di una comune prospettiva, il trito e ritrito sogno americano del self made man.

Guizot, nella Francia orleanista, teorizzava proprio che la borghesia dovesse assurgere a classe universale, i cui valori e la cui operosità potessero divenire la prospettiva di riferimento dell’intera società. Al grido: “Arricchitevi!”, indicava il mezzo attraverso cui assurgere alla felicità, dato a tutti, liberamente fruibile da tutti, basta che lo volessero.

Facile demagogia, molto simile a quella odierna, avvolta da un mito abbastanza potente da suggerire il discredito di sé, il pervasivo senso di fallimento di una classe, alle prese con l’afflizione della povertà, della fame, della disoccupazione.

Si finge che il mondo vero sia quello gaudente, ordinato, raffinato, ricco, occultando al contempo che i fattori costitutivi della presunta equivalenza tra la normalità borghese e il senso della vita umana tout court affondino le loro radici nella struttura di potere mondiale etnocentrica, capitalistica, coloniale.

Il mondo vero dei ricchi e quello apparente dei poveri.

Il paradosso è rappresentato dal fatto che proprio chi “maneggia uomini come cose superflue”, per dirla con Arendt, si erige a decisore della vita altrui e presume di stabilire le norme e le regole del cosiddetto vivere civile.

Dietro questa presunzione classificatoria, di distinguere le vite umane che valgono da quelle che non hanno valore, di governare la cosa pubblica in nome degli interessi di coloro che valgono e di scartare quelli che non contano nulla, si nasconde una aberrante idea di giustizia, intesa come difesa di “ciò che giova al mercato” e una altrettanto aberrante definizione di normalità, i cui assi cartesiani sono dati dal privilegio, dal successo, dal cinismo individualistico, dal perbenismo.

Bell hooks denuncia proprio l’infiltrazione tra i poveri e la classe lavoratrice della cultura predatoria capitalista, che ha indotto l’assunzione dei pensieri e dei valori delle classi dominanti. Pensare come i ricchi avrebbe impedito in qualsiasi modo la lotta di classe. Questo lo scopo perseguito con scientifica determinazione.

Negare l’esistenza delle classi in realtà, sottolinea bell hooks, significa oggi, negli Usa come nel mondo, lasciare che si amplifichino a dismisura le differenze sociali, non voler vedere la crescita esponenziale di povertà che investe la popolazione bianca statunitense, le donne di tutte le razze e la popolazione nera povera. Ancor di più apre un divario di tale entità da mettere in discussione la tenuta della società stessa: i bianchi poveri contro i neri poveri, i neri ricchi contro i neri poveri, le donne bianche privilegiate contro quelle povere razzializzate al loro servizio.

Una grande guerra intestina in cui ognuno dei contendenti accampa un piccolo privilegio a cui aggrapparsi: almeno non sono un nero, un povero, una donna, una serva….

Scrive allora che “Mettere in discussione il razzismo e il sessismo senza interrogare il loro nesso con questo sistema economico di sfruttamento, e la nostra partecipazione, pur marginale, allo sviluppo e al mantenimento del sistema stesso, significa tradire l’orizzonte di una giustizia per tutte e tutti”

Bell hooks a sorpresa rovescia la narrazione dominante. La storia del patire dei poveri e delle classi lavoratrici offre un nuovo criterio interpretativo: “La mia connessione permanente con il mondo della classe lavoratrice delle mie origini ha costituito stabilmente il terreno di ripensamento e interrogazione dei miei valori di classe e delle mie posizioni politiche […]. Riaffermare e mantenere un legame diretto con quel mondo mi costringe a continuare una riflessione critica sulle dinamiche di classe di questa società”.

Se il mondo vero fosse quello dei vinti anziché dei vincitori, degli oppressi, martoriati, schiavizzati, disumanizzati, anziché dei dominatori, di coloro che godono dei frutti della terra e ne beneficiano in modo esclusivo? Se da lì si vedesse ciò che è normalmente coperto dalla retorica che promette felicità, democrazia, libertà? Se lì, stando da qualla parte lì, ritrovassimo i criteri per mettere in discussione i dispositivi di potere che fanno sentire inadeguata, perdente, rifiutata oltre la metà del genere umano? Se stando da quella parte lì, ritrovassimo dentro di noi quell’esile filo che ci riconnette alle nostre storie, alle comunità d’origine, ai valori di solidarietà e rispetto della dignità di ogni persona umana? Quel modo di vivere e convivere, proprio delle comunità povere, delle classi lavoratrici, in cui la povertà non era una colpa, in cui lo spreco semmai era una colpa, l’identificazione del valore di un essere umano col possesso di beni materiali era una colpa, in cui la ricchezza era un pericoloso fardello da portare e anche da giustificare? Quella cultura di comunità che, pur tra tante contraddizioni, faceva apprezzare quella vita in cui il benessere non derivasse dall’immiserimento di altri, e dunque rendeva accettabile porsi il limite della semplicità, della sobrietà, della solidarietà?

Allora lo status sociale può non essere solo una condanna, può diventare una scelta: quella della parte da cui stare.

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