L’articolo di Stefano Bonaga (il manifesto, 17 marzo), indica giustamente nel populismo il nemico peggiore della «isocrazia» intesa come desiderabile sistema politico, capace di assicurare a tutti una «cittadinanza attiva». Poiché il populismo de-politicizza la società, per sconfiggerlo occorre ri-politicizzarla. L’idea ha stimolato un ampio dibattito su queste pagine cui vorrei contribuire mettendo in luce i meccanismi con cui avviene questa de-politicizzazione e indicando alcune condizioni indispensabili per ri-politicizzare.
La personalità di ciascuno di noi è composta da una sfera razionale e una sfera emotiva. Il nostro comportamento, compreso quello politico, è determinato da un gioco mutevole di entrambe. A sua volta, la sfera razionale è composta da conoscenze e abilità, mentre quella emotiva è composta da emozioni, sentimenti, opinioni e atteggiamenti. Se si agisse solo in base alla razionalità, nessuno comprerebbe un pacchetto di sigarette su cui è scritto che «il fumo nuoce gravemente alla salute» o nessuno passerebbe quando il semaforo è rosso. Per modificare un comportamento – nel nostro caso, per ri-politicizzare la società – occorre mettere in atto una complessa azione psico-pedagogica capace di agire insieme su tutti i fattori comportamentali: emotivi e razionali, individuali e collettivi, consci e inconsci.
Tutta la storia umana è segnata da un rapporto dinamico tra emotività e razionalità. Ogni volta che è sorto un problema, in un primo momento ne abbiamo adombrato la spiegazione attraverso racconti, poesie, favole, miti e superstizioni dettate dalla nostra sfera emotiva; poi, in un secondo momento, ne abbiamo raggiunto le soluzioni attraverso la filosofia e le scienze esatte, elaborate dalla nostra sfera razionale. Per secoli la luce – cioè il giorno, la notte, il crepuscolo, lo spettro, la diffrazione, ecc. – è stata spiegata ricorrendo a miti fabulosi: dal greco Zeus che arrossava l’aurora col suo carro infuocato all’egizia Ra, suprema divinità solare che viaggiava su due barche per andare dal mattino alla notte. È stato necessario attendere Newton per spiegare la luce con la teoria corpuscolare, poi Young e Fresnel con la teoria del movimento ondulatorio, poi ancora Planck e Einstein con la teoria dei quanta.
Il populismo non è altro che una spiegazione primitiva della società e della politica in termini rozzi, emotivi, mitici, infantili, pressappochisti, che riporta il popolo a una fase anteriore all’Illuminismo. In Occidente, infatti, è con l’Illuminismo che la realtà socio-politica è stata analizzata abbandonando i pregiudizi emotivi per trasferirne l’essenza dal mondo del pressappoco all’universo della precisione. È l’Illuminismo che elabora e afferma il primo modello di società costruito dall’uomo facendo a meno dell’aldilà e ricorrendo all’uso laico della ragione nella ricerca filosofica e scientifica. «L’Illuminismo – dice Kant nel 1784 – è l’uscita dell’uomo da uno stato di minorità il quale è da imputare a lui stesso. Minorità è l’incapacità di servirsi del proprio intelletto senza la guida di un altro».
Dunque, il contrario dell’illuminismo è il populismo: ignoranza, pigrizia e viltà dei subalterni; disonestà intellettuale, arroganza e cinismo dei dominanti. I quali, «dopo averli in un primo tempo instupiditi come fossero animali domestici e avere impedito accuratamente che queste pacifiche creature osassero muovere un passo fuori del girello da bambini in cui le hanno imprigionate, in un secondo tempo mostrano ad esse il pericolo che le minaccia qualora tentassero di camminare da sole».
Da questo passo di Kant, sintesi di tutto il movimento illuminista, trae origine la nostra identità di moderni e di postmoderni. Quando lo Stato era in mano al Re Sole, convinto di derivare la sua onnipotenza direttamente da Dio e dotato del potere di vita o di morte su ogni suo suddito, quando la Chiesa disponeva di un apparato persecutorio occhiuto e spietato come l’Inquisizione, quando qualsiasi minima trasgressione era pagata con il rogo o con la decapitazione, una ventina di giovani geniali e coraggiosi – da Voltaire a Diderot, da Kant a Jefferson, da Genovesi a Beccaria, da Montesquieu a Rousseau e a d’Alembert – coraggiosamente sostennero che il potere del re deriva dal popolo, che Dio non esiste e tantomeno il suo vicario in terra.
Poi, in coerenza con la propria auto-definizione di «lumi», si votarono a diffondere la loro rivoluzione culturale con un’opera pedagogica a tutto campo: dalla letteratura al teatro, dalla vitalità dei salon a quel monumento ineguagliabile che resta l’Encyclopédie. Diderot pagò questo suo coraggio col carcere, Voltaire col carcere e con l’esilio, Rousseau con una vita fuggiasca, Condorcet con la vita.
Gli Illuministi vinsero la battaglia, non la guerra, che resta perenne tra il ragionamento razionale e la pulsione emotiva, tra il populismo infantile e la democrazia matura, l’isocrazia proposta da Bonaga. E vinsero la battaglia perché nella loro Parigi, come annotò un viaggiatore tedesco dell’epoca, «tutti, e specialmente le donne, hanno un libro in tasca. Donne, bambini, operai, giovani di bottega leggono nei posti di lavoro… I lacchè leggono dietro le carrozze, i cocchieri a cassetta, i soldati nelle caserme e i commissionaires ai loro posti».
Oggi quelle donne, quei bambini, quegli operai, quegli apprendisti, quelle badanti, quegli autisti, quei soldati, quei manager si acculturano tramite la televisione dove una ventina di anchormen gestiscono tutta l’informazione e la formazione nazionale infarcendola di luoghi comuni, trucchetti manipolativi e pubblicità, proprio per depoliticizzare la società e costringerla all’anomia.
Combattere il populismo comporta una lunga marcia in cui la prima tappa consiste nell’elaborazione di un nuovo modello di società intorno al quale aggregare i «sottoproletari e i proletari postindustriali» di tutto il mondo. Senza un modello utopico e scientifico al tempo stesso, non si va da nessuna parte perché, come diceva Seneca, nessun vento è favorevole per il marinaio che non sa dove vuole andare. Elaborarlo è un’impresa titanica ma ineludibile, che esige lo stesso rigore metodologico sperimentato dagli illuministi nel Settecento, dai comunisti nell’Ottocento, dagli scienziati nel Novecento.
Ogni grande costruzione sociale – confuciana, induista, classica, cristiana, luterana, liberale, socialista, comunista, e così via – è nata su un modello ad essa preesistente. Il Sacro Romano Impero traeva il suo modello dai Vangeli e dai Padri della Chiesa; gli stati centrali del Sei e Settecento lo traevano dai testi luterani; gli stati liberali dell’Ottocento dai saggi di Smith e Montesquieu.
Nessun modello è sotteso alla nostra attuale società postindustriale. Essa è solo un patchwork sgangherato di bisogni e desideri affastellati alla rinfusa ed evocati di volta in volta dai politicanti in base al loro tornaconto. E quando non si dispone di un modello cui parametrare le nostre azioni, è impossibile distinguere il bene dal male, il vero dal falso, la sinistra dalla destra. La seconda tappa della lunga marcia per vincere il populismo ri-politicizzando la società, è di natura pedagogica e consiste nella paziente formazione dei cittadini per una doppia vittoria sull’analfabetismo culturale e sull’analfabetismo politico.
L’Atene di Pericle poté consentirsi la democrazia diretta perché tutti i suoi 40.000 cittadini liberi erano alfabetizzati, avevano studiato nell’accademia di Platone o nel Lyceum di Aristotele e ogni ateniese a quarant’anni aveva assistito ad almeno 300 rappresentazioni teatrali di autori del calibro di Sofocle o di Euripide. Invece nell’Italia di oggi ogni quarantenne, oltre ad aver frequentato scuole sgangherate, ha assistito a centinaia di trasmissioni di Barbara D’Urso o del Grande Fratello.
L’Isocrazia proposta da Bonaga è un apice cui dobbiamo tendere. E l’impresa sarà compiuta solo quando il populismo sarà messo nella impossibilità di smerciare le sue cianfrusaglie ideologiche a eterni minorenni per scelta, che hanno delegato a un solo capo il compito di pensare. Dunque, la nostra sfida consiste nel farli diventare maggiorenni.