Ha suscitato grande stupore la nota verbale che la Segreteria di Stato vaticana ha consegnato il 17 giugno scorso all’ambasciatore italiano presso la Santa Sede relativa alla legge sul contrasto alle discriminazioni fondate sul sesso in discussione al Senato. Questo passo si pone fuori dal dibattito politico culturale che si sviluppa liberamente nel nostro paese ogni volta che il Parlamento affronta temi eticamente sensibili nel quale la Chiesa e le varie formazioni sociali di ispirazione cattolica intervengono attivamente. Qui vengono in gioco i rapporti di forza fra gli Stati, regolati dai trattati internazionali. E’ il Governo di uno Stato estero che interviene sul Governo italiano per denunciare, non l’avvenuta violazione, ma il rischio che un provvedimento legislativo in itinere possa portare ad una violazione degli obblighi nascenti da un trattato internazionale che vincola i due Paesi.
Astrattamente quest’intervento non si può considerare inammissibile poichè, a norma dell’art. 117 della Costituzione: “la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento e dagli obblighi internazionali”.
Quindi la libertà del Parlamento non è illimitata ma incontra i limiti della Costituzione e del rispetto del diritto e degli obblighi internazionali. Ed è proprio la Costituzione all’art. 7 (nel quadro dei principi fondamentali) che stabilisce che “lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani”, aggiungendo che: i loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi, cioè da un trattato internazionale fra due entità statali.
Ciò significa che lo Stato italiano non può impicciarsi del magistero della Chiesa cattolica in tema di omosessualità, di famiglia o di etica sessuale per cambiarlo, come non può impicciarsi del magistero o delle tradizioni di altre religioni, così come la Chiesa cattolica o le altre religioni non possono limitare la libertà di autodeterminazione delle istituzioni della Repubblica, in primis il Parlamento.
Di fatto, però, la nota vaticana, oltre che un assurdo atout politico alla destra sovranista, costituisce un’ingerenza inaccettabile nella libertà di autodeterminazione del Parlamento italiano e quindi deve essere respinta al mittente. Il problema è che il riferimento all’Accordo di revisione del Concordato è del tutto pretestuoso. Nella nota la Segreteria di Stato rileva che “alcuni contenuti dell’iniziativa legislativa — particolarmente nella parte in cui si stabilisce la criminalizzazione delle condotte discriminatorie per motivi ‘fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere’ — avrebbero l’effetto di incidere negativamente sulle libertà assicurate alla Chiesa cattolica e ai suoi fedeli dal vigente regime concordatario”.
Quindi la Segreteria di Stato si duole della “criminalizzazione” delle condotte discriminatorie. Proprio quello di cui non si potrebbe mai dolere, perché nella libertà di espressione che la Costituzione – in primis – garantisce a tutti, non solo ai fedeli della Chiesa cattolica, non rientra e non potrebbe mai rientrare l’istigazione a commettere atti di violenza o di provocazione alla violenza. Ma è ancora più preoccupante il passaggio successivo: “Ci sono espressioni della Sacra Scrittura e delle tradizioni ecclesiastiche del magistero autentico del Papa e dei vescovi, che considerano la differenza sessuale, secondo una prospettiva antropologica che la Chiesa cattolica non ritiene disponibile perché derivata dalla stessa Rivelazione divina“.
Qui si capovolge il tavolo: non è più un problema di accordi internazionali da rispettare, è proprio il discorso sulla non discriminazione fondata sul sesso che si rifiuta invocando una legge divina. Ora nell’ordinamento democratico al di sopra della legge c’è la Costituzione, non ci sono le sacre scritture. Nel nostro ordinamento, a differenza di quanto succede in Iran o in Arabia saudita, non potrebbe mai trovare applicazione quell’insegnamento del Levitico che recita: « Se uno ha rapporti con un uomo come con una donna, tutti e due hanno commesso un abominio; dovranno essere messi a morte: il loro sangue ricadrà su di loro. » (Levitico 20,13).
Nell’anno duemila si sviluppò un aspro dibattito in Italia sull’opportunità che si svolgesse a Roma il Gay Pride mentre era in corso il Giubileo. L’allora Presidente della Conferenza episcopale, Cardinale Camillo Ruini, inviò una nota al Presidente del Consiglio dell’epoca invitandolo a non autorizzare la manifestazione. Giuliano Amato, intervenendo alla Camera respinse l’invito osservando che non poteva farlo perché: “purtroppo c’è la Costituzione”.
Anche oggi, di fronte a questa nota stonata, l’unica risposta è: purtroppo c’è la Costituzione.