L’assassinio di George Floyd si porta dietro una quantità incredibile di “effetti collaterali”: finalmente viene fuori in modo netto e preciso una dolorosa spaccatura e contrapposizione fra afroamericani e bianchi, finora mai sanata, ma spesso ipocritamente ignorata e sminuita. La guerra civile americana, combattuta fra gli stati unionisti del nord e quelli schiavisti, secessionisti e confederati del sud (1861-1865), ha forse abolito la schiavitù, ma certamente non ha ridotto la distanza sociale fra bianchi e neri. Chi pensa che episodi di razzismo capitino oggi solo negli ex stati sudisti, si sbaglia. Anche il nord è stato ed è rimasto razzista: voler abolire la schiavitù era un atto di civiltà (ma cinicamente serviva anche a liberare manodopera a poco prezzo per le industrie del nord), quanto però a credere gli afroamericani uguali a sé, era un altro paio di maniche. E se no perché nel 1955 Rosa Parks si sarebbe ribellata a dover stare in piedi in un autobus per cedere il suo posto a un bianco? Qualcuno dirà: ma i tempi sono cambiati! Davvero? La morte di Floyd ci dice di no.
Oggi non è poi troppo diverso, infatti: i neri occupano posti di secondo piano, hanno stipendi più bassi, e sono sempre guardati con sospetto. E se la polizia li ferma vanno incontro a indagini inquisitive severissime. E infatti è così che Floyd è finito col collo sotto il ginocchio di un poliziotto bianco, che lo ha volutamente assassinato. Vedere morire in quel modo assurdo un uomo innocente è stato credo sconvolgente e intollerabile per tutti, ma in America è stata la classica goccia che fa traboccare il bicchiere. Il fatto è che, oltre a tutto, questo sopruso ignobile e criminale è capitato in piena pandemia, quando l’essere afroamericani sotto pagati significa anche non essere in grado di pagare l’assicurazione medica e finire a morire a casa, senza alcuna assistenza.
La rabbia contro ogni forma di discriminazione e di razzismo è salita fino a traboccare in episodi di intolleranza totale, per cui anche le statue di personaggi confederati e in odore di razzismo del passato sono finite decollate e buttate giù dai piedestalli. Quella equestre di Robert E. Lee, generale dell’esercito sudista e suo comandante in capo, è stata sfregiata qualche settimana fa e verrà rimossa dalla Monument Avenue di Richmond in Virginia. E’ evidente che Lee è solo un simbolo, visto che le altre quattro statue di famosi personaggi della Confederazione sudista, nella stessa strada, non sono state toccate. Del resto non è la prima volta che una statua del generale Lee viene rimossa: la sparatoria di Charleston, nella “Emanuel African Methodist Episcopal Church”, nel 2015, dove il ventunenne bianco e nazista Dylann Roof uccise 9 afroamericani (sperando di scatenare – a quanto egli stesso ammise – una guerra razziale), portò alla rimozione di un’altra statua del generale Lee. Il che dimostra che evidentemente non basta distruggere una statua per cambiare una situazione.
Il generale confederato Robert E.Lee
Anche la statua di Theodore Roosevelt davanti al Museo di Storia Naturale di New York sarà rimossa, ma non perché l’ex presidente degli USA non sia stato un buon presidente, ma perché è la statua in sé che è intollerabile: è concepita come un monumento alla discriminazione, travestito da tributo a Roosevelt. Una manipolazione nemmeno troppo sottile, per far passare un contenuto razzista dietro un nome di facciata irreprensibile. Basta guardarla per capirlo subito: Roosevelt è l’uomo bianco a cavallo, mentre al fianco, a piedi, un afroamericano e un nativo americano lo seguono, succubi e rassegnati. Un messaggio ripugnante dietro una brutta statua, anche artisticamente molto modesta, che avrebbe dovuto essere rimossa assai prima di oggi.
Dopo le proteste, i tafferugli, le manifestazioni, i cortei al grido Black Lives Matter (le vite dei neri contano) gli afroamericani sono passati al contrattacco e ormai si sente parlare di nuovo e sempre più spesso di “quote nere” (come le nostre “quote rosa”). In realtà questo meccanismo protettivo fu introdotto negli anni Sessanta dalle amministrazioni Democratiche di John F. Kennedy e Lyndon Johnson, chiamata affirmative action e presentata come «una forma di risarcimento per la discriminazione subita in passato, un trasferimento di opportunità dalla classe dominante alla minoranza emarginata». La misura obbligava tutte le università a creare una corsia preferenziale per gli studenti che appartenessero alle minoranze etniche, in particolare soprattutto gli afroamericani, per permettere un accesso più equo all’educazione di alto livello e inserire gradualmente persone diverse dai bianchi – che erano state segregate e schiavizzate per secoli – nella classe dirigente del paese.
Come ricorda il New Yorker in un articolo del 2017, negli anni l’affirmative action è stata messa in discussione più volte, esaminata dalla Corte Suprema, bandita in otto stati, estesa al football americano, nonché dibattuta dai principali editorialisti e sociologi del paese, ma è difficoltosa nell’applicazione, per molte ragioni. Fra cui quella dell’imposizione dall’alto: una forma insultante e umiliante di cooptazione, un criterio paternalistico che impedisce un cambiamento dal basso e condiviso e continua così a discriminare e a dividere. Fai qualcosa per i neri? Ma fai lo stesso per i nativi americani? E per i latinos? Perché il politically correct, spesso non risolve tutto, anzi può essere anche controproducente*.
Qualcuno poi vede un film come “Indovina chi viene a cena?” e pensa che il problema razziale sia facilmente risolvibile. Si elegge un presidente nero e si dice “Adesso il problema è proprio risolto”. Non è così ed è evidente ormai che la cosa è molto lontana dalla soluzione e molto più intricata. Ora la segregazione ha ambiti diversi, meno eclatanti, più subdoli: “La segregazione razziale contemporanea viene vissuta soprattutto nei quartieri residenziali - come segregazione residenziale - ed è stata plasmata, tra gli altri fattori, da politiche pubbliche, discriminazioni ipotecarie, sui prestiti e sui tassi di mutuo in ambito immobiliare”. Il razzismo insomma è un veleno che intossica le coscienze, le distorce e per contrastarlo ci vuole una maturità politica, intellettuale e culturale che non molti hanno. Soprattutto poi quando ci sono leader (si fa per dire) razzisti e fascisti, che soffiano sul fuoco dell’odio.
Le teste del Monte Rushmore
Dopo il delitto Floyd, dicevamo all’inizio, ormai si sta passando tutto al pettine fitto: e sono nell’occhio del ciclone non solo le statue, ma anche le teste di quattro presidenti americani (George Washington, Thomas Jefferson, Theodore Roosevelt e Abraham Lincoln) scolpite sul Monte Rushmore. I motivi sono tanti: in primis il fatto che il loro scultore, Gutzon Borglum, fosse un antisemita, un razzista e appartenesse al Ku Klux Klan. In secundis che le Black Hills, le colline scalpellate ( a farlo fu un italiano, certo Luigi del Bianco) appartenevano ai Lakota, il popolo dei nativi americani che noi abbiamo sempre chiamato Sioux, non sapendo che per loro era un insulto, in quanto la parola sioux significa “serpenti”, nella lingua algonchina dei loro nemici. Inoltre in lingua Lakota il sito (sacro!) era detto “I sei nonni”, ma invece fu rinominato con l’attuale nome, in onore dell' impresario Charles E. Rushmore. Chi fosse costui non ci è dato saperlo, a parte che aveva comprato una concessione su questa terra e donato 5mila dollari per la realizzazione della scultura. Eppure il grande capo Cavallo Pazzo, alla cui tribù apparteneva la terra, non aveva mai voluto vendere quelle colline sacre, dicendo al governo di Washington “Non si vende la terra su cui la gente cammina”. Eppure Rushmore aveva potuto comprare una concessione su quelle zone sacre (ma ricche d’oro), alla faccia dei nativi… così sono fatti i bianchi: arroganti, avidi, egoisti, incapaci di rispettare le culture e i luoghi sacri di altri popoli, se possono lucrarci sopra.
La scultura delle 4 teste fu iniziata nel 1927 e proseguì, con l'impiego di circa 400 operai, fino alla morte di Borglum, nel 1941. La scultura fu poi finita dal figlio, Lincoln. La scultura è alta 20 metri ed è nel tempo diventata un'importante meta turistica, anche per le bellezze naturalistiche delle Black Hills. Sempre nel Dakota del Sud, i Nativi americani ( ma è un gruppo di polacchi che ha preso il sopravvento e cerca di lucrarci sopra) stanno costruendo una immensa scultura nella roccia, che celebra il coraggioso grande capo oglala-lakota Cavallo Pazzo e che da lui si chiama Crazy Horse Memorial. Hoka Hey! “E’ un giorno buono per morire” era il suo grido di guerra, poi saccheggiato e ripetuto da tanti.
com’è e come sarà il memorial
Adesso, dicevamo, c’è chi vuole distruggere i ritratti del Monte Rushmore: per riparare agli sbagli del passato, si vuole commettere forse un altro sbaglio e questa volta anche per le pesanti ricadute economiche, essendo queste sculture meta di migliaia di turisti da tutto il mondo.
Come storica, le forme iconoclastiche di damnatio memoriae mi disturbano molto: le trovo inutili, devianti e anche dannose, perché gli avvenimenti del passato non vanno rimossi e cancellati, ma studiati e capiti, ma soprattutto vanno contestualizzati storicamente, perché non si ripetano. Certo non lascerei una statua di Mussolini in una piazza italiana, mi ripugna solo l’idea, ma non scalpellerei – come è stato stupidamente fatto – i fasci littori dagli elementi architettonici di case costruite negli anni 30. In ogni caso non si può cancellare il ventennio fascista dalla storia passata, con martello e scalpello, perché non è solo stupido è anche pericoloso. Tutti i revisionismi sono operazioni pericolose, anacronistiche e stupide. Anche le sostituzioni arbitrarie di statue non sono il massimo della correttezza: E’ successo in Inghilterra, a Bristol, dove dopo aver giustamente rimosso la statua del commerciante di schiavi Edward Colston (c’è da chiedersi perché avesse una statua!) è comparsa quella di una dimostrante del movimento antirazzista Black Lives Matter. Ovviamente sarà rimossa anche questa, visto che è stata messa lì senza l’avvallo delle autorità. E speriamo che non ci sia un seguito di polemiche senza fine.
Ma che c’entra Colombo?
Sì, va bene, ok per le statue buttate giù di personaggi accusati di razzismo etc., ma che c’entra il povero Cristoforo Colombo? Niente. Non ha mai commerciato in schiavi, non ha ucciso nessuno dei nativi (il famoso massacro dei Tainos avviene addirittura dopo la sua morte) e lui stesso fu vittima del governo spagnolo, arrestato e trascinato in Spagna in catene, in modo che non potesse rivendicare niente della scoperta delle nuove terre. Ed era uno straordinario marinaio, colto e intelligente, che non ha scoperto l’America per caso!! Questa è una bufala difficile da estirpare, ma è fondamentale capire perché è nata. Colombo sapeva benissimo che c’era una terra fra l’Europa e l’estremo Oriente: Cina e Giappone. Una terra “selvaggia” abitata da popoli sconosciuti. Se no perché avrebbe stipato nella stiva delle sue navi sonaglini e perline da quattro soldi? Qualcuno può credere che avrebbe potuto barattarle con sete, giade, perle e porcellane raffinate dell’Oriente? E perché nel contratto coi reali di spagna c’era la clausola che avrebbe assunto il titolo di Governatore delle terre scoperte? Se davvero andava in estremo oriente non avrebbe certo potuto assumere nessun titolo in quegli stati! Inoltre aveva studiato le maree del Mediterraneo e quella di Bristol sull’Atlantico e i dati raccolti gli avevano dato la conferma: c’era una terra sconosciuta. Si trattava infondo di una semplice proporzione matematica: se la lunghezza del Mediterraneo dava origine a una marea di tot metri, quanto era lunga la distanza fra l’Europa e le terra oltre l’Atlantico, dato che la marea a Bristol era alta tot metri? E quel numero non corrispondeva alla distanza ipotetica dell’Europa dalle terre dell’Oriente. O il nostro pianeta non sarebbe stato rotondo ma ovale. Elementare. Inoltre la gente di mare sapeva bene che c’era una terra a ovest, fra noi e l’Oriente: erano stati trovati dei cadaveri in alcune piroghe disperse da terribili tempeste e i corpi ritrovati appartenevano ad una razza diversa da tutti i popoli conosciuti. L’America del nord era del resto nota dal tempo dei vichinghi, nel X secolo, che non solo c’erano arrivati, ma vi avevano anche costruito dei villaggi, come recenti scavi archeologici hanno testimoniato. Abbiamo oltretutto una documentazione scritta: la cosiddetta “saga di Erik il rosso”che racconta delle fattorie di Vinland, la terra del vino.
E’ ovvio che notizie su questa terra nuova fossero note alla gente di mare, ma non ai geografi delle grandi scuole, come quella di Lisbona, che snobbisticamente non ascoltavano i marinai e tenevano le loro teorie ben lontane dal volgo.
Ma il problema di Colombo era complesso: i soldi - per armare le navi e andare di persona a verificare le notizie che aveva raccolto - li aveva e c’era una cordata di armatori genovesi pronti a entrare nell’affare. Ma Colombo voleva una copertura politica che proteggesse la sua scoperta e questa copertura poteva venirgli solo da uno stato forte e temuto dagli altri. Ecco perché si trascinò nelle corti europee, con una pazienza davvero encomiabile e certo una frustrazione incredibile. Ma non poteva dire la verità e cioè che c’era una terra nuova tutta da scoprire, o lo avrebbero preso per pazzo, disse solo che si poteva “andare al levante attraverso il ponente” e su questo potevano essere d’accordo anche i geografi. Insomma lui soprattutto non voleva che gli rubassero la sua scoperta e invece guarda cosa è successo! I reali di Spagna gli diedero tre navi non proprio nuove e lui doveva comunque approvvigionarsi da sé, ma andava bene lo stesso: adesso aveva una copertura politica. Ma quando i re di Spagna scoprirono che Colombo aveva avuto ragione a intraprendere quel viaggio e che c’era una terra nuova, chissà quanto ricca, si chiesero perché dovevano lasciare a lui non solo i meriti, ma anche i benefici economici e si presero tutto, togliendoselo dai piedi … già.
Quando anni fa feci un corso su Colombo e le grandi scoperte geografiche, leggemmo in classe e commentammo diversi passi del Diario di bordo di Cristoforo Colombo e ci sentimmo frustrati per lui. E adesso, francamente, mi fa arrabbiare vedere le sue statue sfregiate e buttate giù: infelice destino davvero il suo! Lui paga lo scempio che hanno fatto gli altri che vennero dopo di lui: i conquistadores, i mercanti di schiavi, i nuovi coloni che distrussero le terre dei nativi americani e li chiusero nelle riserve. Perché non dobbiamo dimenticarci di loro, quando sosteniamo la protesta degli afroamericani! Insomma: la colpa sarebbe sua di tutto ciò che è avvenuto in terra americana! Peggio per lui che l’ha scoperta e indicata agli europei…
Cristoforo Colombo
Barbara Fois
*a proposito del politically correct, leggetevi il documento firmato da 150 intellettuali americani