Fino a quando?

di Corrado Fois - liberacittadinanza.it - 26/04/2023
Nelle situazioni estreme non resta che il pensiero rivoluzionario: disattendere regole, ribellarsi al mondo senza mai perdere il rispetto per sé stessi - Jacques Attali

Cominciare un ulteriore ragionamento sulla rivoluzione, tema ampio e scivoloso e scomodo, con le parole di Robespierre o Trotzkj, di Bordiga o Gramsci, o addirittura ricicciando Guevara e Zapata sarebbe fin troppo semplicistico. Lo sarebbe anche per me, partigiano del semplice e dell’ovvio. Ed in proposito: sono un semplicista ( spero non un sempliciotto, ma chi lo sa? ) per due motivi. Primo: per natura ed esperienza diffido di quelli che dicono … bisogno ulteriormente approfondire.. perché il risultato di ogni comitato di rilettura è inversamente proporzionale alla necessità. La semplicità non è superficialità, se essa è frutto della sintesi e della decisione. E le due cose non abbisognano di eccessi introspettivi, quanto di ragionamenti fattuali. Secondo: perché a mio avviso è nel semplice e nell’ovvio che si annidano le verità scomode. Quando si eccede a ragionare con l’aggiunta e l’allargamento di elementi si finisce nella paralisi attraverso l’analisi. L’analisi ha una sua quantità e temporalità definibili. Nelle ricette si usa una formula felice: quanto basta. Poi l’analisi diventa alibi.

Quindi per evitare riferimenti emblematici ed immediatamente riconducibili ad una forma di rivoluzione, ho scelto come sintesi di partenza (un apparente ossimoro) la frase di Attali.

Chi sia Jacques Attali è noto, ne riporto ruolo e pensiero solo perché utile al mio pezzullo. Attali viene dal mondo della finanza ebraica, è un intellettuale borghese, un buon economista ed un banchiere di successo. Dunque perfettamente organico al capitalismo moderno. E’ stato il consulente strategico di Mitterand ed è stato poi scelto da Sarkozj per coordinare la commissione per la liberazione delle attività economiche in cui operava, da giovane engagé, anche Macron.

Il nostro Jacques non ha dunque il profilo di un socialista. Eppure, come vediamo nella frase iniziale, utilizza un concetto preciso che ritroviamo sia nelle riflessioni di Marx che in quelle di Bakunin, cioè nei due punti estremi e difficilmente conciliabili del pensiero e del metodo antagonista.

Perché Attali giunge a questa riflessione? Perché ha chiaro il da fare. Essendo uomo attento a leggere le dinamiche economiche - in termini complessivi – ha in evidenza le due forze contrapposte in ogni processo, cioè dinamica e staticità.

Egli inoltre sa bene quanto esista – nella legge del caos – l’eventualità che ognuna delle due forze contrapposte generi, al proprio interno e per propria causa, eventi imprevedibili. Dunque ci dice: guarda che nella situazione estrema - e non vi è dubbio che tutto il Mondo viva ora una situazione estrema - l’unica via di uscita per evitare il caos è programmarlo. Solo governando e determinando il processo rivoluzionario si può gestirne le conseguenze.

Cos’è una rivoluzione?

La rivoluzione non si fa in guanti bianchi, diceva Stalin, perché non è un pranzo di gala ma un atto di violenza, chiosava Mao. Questa frase, scritta a quattro mani da due post-marxisti, si sincretizza con il pensiero borghese che guidò la prima fase della rivoluzione francese. Saint Just diceva più o meno così: una rivoluzione fatta a metà è la via delle tombe.

Ed anche si coniuga – saltando uno iato temporale di due secoli - con la visione della nuova era tecnologica che, nel pensiero di Bertrand-Lee come di Jobs, significava costruire un mondo che non avesse nulla di simile col precedente. Un’effettiva rivoluzione poiché sradicava il vecchio e piantava il nuovo. Essa ipotizzava un mondo di energie a tempo, di consumo pilotato, di lavoro immateriale, di superamento del principio di sfruttamento umano. Poi però i due visionari non hanno governato il momento rivoluzionario che avevano iniziato. Nel caos seguente sono emersi squaletti come Zuckemberg, Musk, Bezos. Costoro non c’entrano nulla coi due generatori iniziali, sono solo parassiti di visioni altrui e visti i loro conti attuali, anche incapaci di sfruttarle decentemente e con vantaggi collettivi.

La rivoluzione di cui ragiono in questo pezzullo non è ovviamente capelli al vento e petti contro i fucili, così come nell’iconografia ottocentesca. La rivoluzione che si immagina è invece un processo complesso, costruito con specifici obiettivi antagonisti alla situazione corrente. Uno schema operativo, preciso e dettagliato, finalizzato a sostituire una prassi ormai statica, con una modalità ( schema produttivo / schema di Stato ) alternativa e destinata a creare nuove dinamiche. Il mondo nuovo per dirla iconicamente.

Il fatto che tutta la, diciamo, sinistra ( uso il termine per semplicità, bisognerebbe accettare che ormai è diventato geografia parlamentare, non contenitore politico distintivo ) abbia rigettato l’ipotesi di un’alternativa totale non significa che essa non sia praticabile. Significa che si è scelto di non praticarla. Tutte le belle frasi retoriche sull’ideologie al tramonto hanno celato una scelta fattuale di collaborazionismo con l’esistente.

Rinunciando alla strada delle riforme progressive che sommate ribaltano lo status quo, i progressisti di tutte le latitudini hanno lasciato spazio ai conservatori. In un qualche modo, con quella rinuncia, hanno perso scopo identità ed importanza. Inoltre auto-estinguendo il ruolo di chi pratica la trasformazione condivisa hanno lasciato spazio alla contrapposizione netta. Rivoluzione versus reazione. Per questa serie ininterrotta di rinunce strategiche, nemmeno troppo lentamente, siamo giunti ad oggi al punto dirimente della storia umana: o cambiamo tutto od il tutto ci crollerà addosso. In forma di catastrofe ambientale, in forma di guerra mondiale. In forma di dittatura.

Chi – adesso come in passato - si spaventa della logica rivoluzionaria si spaventa della Storia. Chi crede che nelle situazioni estreme si possano ancora ipotizzare riforme parziali è abitato da una grande illusione.

Nulla di efficace si può fare senza la necessaria determinazione ad andare fino in fondo. Chi non sa andare fino alle estreme conseguenze non è in grado di gestire nemmeno le piccole contingenze. Non lo dico io, Mr. Nessuno. Lo dicono filosofi, economisti e storici. Bipartisan.

Con la sua naturale ironia G.B.Shaw diceva che un’azione senza conseguenze non merita di essere compiuta. Ed è in fondo questo paradosso risulta coniugabile con ciò che osservava, nei corollari alla sua teoria della coerenza nella discontinuità, Ludovico Geymonat. Insomma: rivoluzione è gestire con razionalità e coraggio la radicale eliminazione di un sistema complessivo e programmare e coordinare la costruzione di nuovi sistemi in effettiva discontinuità. Questo è un atto rivoluzionario, assoluto. Sia in termini di classe – con la rivoluzione sociale- che in termini complessivi, paradigmatici- con la rivoluzione produttiva e morale.

Aldilà delle ricostruzioni più o meno retoriche, la rivoluzione è una necessità naturale. Quando la staticità mette a rischio i fondamentali dell’esistenza si deve operare per la disintegrazione di quelle prassi rivelatesi suicide, generando e guidando la costruzione conseguente di un nuovo articolato sistema.

La rivoluzione si esprime soltanto attraverso questa complessiva, coerente discontinuità. Altrimenti è solo un ribaltamento dei rapporti di potere. Come fu in Francia dove a Robespierre si sostituì Napoleone, od in Russia, con la politica controrivoluzionaria di Stalin.

Fino a quando?

Fino a quando possiamo reggere e proseguire in questo sistema che non sta più in piedi? Difficile a dirsi. Abbiamo il tutto in sospensione che ruota su se stesso come una moneta lanciata in aria. In Occidente democrazia, pace, giustizia i valori del progressismo illuminista sono in crisi totale. Dall’altra parte In Oriente e nel Sud premono le forze oligarchiche e la grande crisi ambientale. Camminiamo su un filo.

La democrazia si è isterilita progressivamente. Le rinunce di cui parlavamo hanno dissecato la vena riformista e dall’altra parte c’è solo la destra, un contenitore piccolo borghese di egoismi senza progettualità. Dappertutto la democrazia agonizza. In America ad esempio vediamo, per palese mancanza di proposte alternative, candidato un 80enne, Biden. Un presidente dal profilo modesto già in più fresca età. Un’amministrazione che ha collezionato cumuli di cazzate, dalla fuga afgana fino al serpeggiare della Nato ed al finanziare instabilità africane e sudamericane. Un raggruppamento politico che – non avendo identità e progetti distintivi ed alternativi - può solo sperare negli errori dell’avversario. Solo se i repubblicani candideranno Trump, corpulento e grottesco concentrato di vanagloria ed incapacità, i dem possono sperare di vincere. Se gli altri trovano qualcuno appena decente e più fresco, no. Una democrazia nel vuoto di idee non galleggia in assenza di peso. Si disintegra.

Infine guardiamo a noi, al nostro perimetro locale, l’Italia. Il concentrato evidente di quale sia il male che affligge l’Occidente. Un male presente in tutti i paesi d’Europa, ma da noi in forma peggiorata. Aver avuto per tutta la storia repubblicana instabilità politica e paralisi strategica ci ha reso, indubbiamente, i peggiori.

Non si vede uno straccio di progetto, non vi è traccia di visione. Non vi è pensiero. Tutto il dibattito politico – in questa pericolosissima fase mondiale - vive ormai solo nel rinfacciarsi atteggiamenti. Le parole scappate al coglione di turno. Le ambiguità di costui o colei.

Un’ultima evidenza l’abbiamo avuta nel 25 aprile più mesto ed insipido che io ricordi. Da un lato la modestia, culturale e politica, di una destra/destra finita in mano a scappati di casa. Dall’altro una sedicente sinistra che ha dimenticato ogni alternativa forte e determinata per perseguire un’opposizione fatta di giudizi sul fare, no meglio sul dire visto il nullismo del governo, altrui.

Il 25 aprile, come esempio, dimostra cosa succede quando non si ha la necessaria determinazione a cambiare. E’ una data precisa, l’episodio culminante di una guerra interna tra parti contrapposte ed è stato, io dico artatamente, trasformato in simbolo collettivo. E come tale astratto e dunque di nessuno. Ho sentito frasi che sono per me la somma dell’ipocrisia. La resistenza appartiene a tutti. Mi dispiace non è così. La guerra civile non fu di tutti. Avvenne in alcune parti del paese tra alcune decine di migliaia di antagonisti, come disse Parri, contro qualche decina di migliaia di fascisti, come sappiamo dai fatti storici, in un terra occupata da forze straniere, nazisti ed alleati, che combattevano – qui come altrove- la guerra mondiale.

Lo scontro tra parti italiane pagato col sangue fu vinto dalle brigate partigiane comuniste ed azioniste. I fascisti persero. Questa è la guerra civile. Noi festeggiamo una vittoria, non una comunione.

Nel 25 aprile ricorre la data di un’insurrezione finale contro un governo dittatoriale. Essa, l’insurrezione, non diventò rivoluzione perché la Russia che aveva vinto la guerra insieme all’Inghilterra negoziò con i più ricchi, cioè gli Americani, l’Europa a scacchiere. I partigiani vennero disarmati e mandati a casa e Togliatti- fedele allora a Mosca – dichiarò l’amnistia. Fine.

Alle forze della trasformazione mancò la visione e la determinazione necessarie per orientare il paese verso una globale trasformazione, con un atto rivoluzionario. Prevalsero gli equilibri internazionali dettati dai due imperialismi. Ed oggi, a causa di quelle mancanze, paghiamo il prezzo di una Repubblica fondata sulla cautela.

Sarebbe stata possibile un’alternativa vera? Era possibile ipotizzare una rivoluzione italiana fuori dalle logiche di Mosca e Washington? Non lo sapremo mai perché non fu nemmeno tentata.

E questo che cerco di dire. Abbiamo con la rivoluzione un atteggiamento ambiguo, da un lato c’è chi la vive come sogno di purificazione dall’altro come incubo distruttivo. Sbagliati entrambe. La rivoluzione è una dinamica storica, non è né un mito sano né un mostro. Essa è, come dicevamo, solo una prassi che si sceglie come ultima istanza quando la situazione non è più gestibile.

Non si scelse allora per servilismo? Possibile. Fu invece per misurazione delle proprie ed altrui forze misurate con prudenza? Probabile. Quest’ultimo sembra un proponimento saggio assunto che la prudenza è un’ottima consigliera. Tuttavia dandole sempre retta non si costruisce il nuovo.

Così è ancora, in questi tempi di convulsione. La prudenza prevale sulla valutazione fattuale e si preferisce proseguire all’infinito una situazione nel suo complesso pericolosissima, per non correre rischi. Come dire che uno perso nel circuito di Monza durante il gran premio, fa bene a stare fermo in piedi dietro una curva perché attraversare è pericoloso. Auguri.

Fino a quando accetteremo un sistema complessivo – lavoro leggi stato politica - che ha reso ogni cosa, a cominciare dalle nostre vite, precaria e mesta? Chi può dirlo. Forse ancora a lungo, se un lungo tempo ci sarà dato.

O forse no. Le cose accadano poi, all’improvviso ed inaspettatamente, ribaltando l’insieme in modo caotico quanto casuale. In questo modo purtroppo – non essendo stato programmato e governato il dopo – il cambiamento diverrà in breve restaurazione. E quindi il bosco, dopo l’incendio, sarà uguale a prima. Con sacrifici tanto grandi quanto inutili.

Come la storia insegna.

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