Israele

di Corrado Fois - liberacittadinanza.it - 03/03/2023
Le parole in Israele erano più forti delle azioni, le precedevano, le determinavano. Erri De Luca

Cosa sappiamo davvero d’Israele? Quanto conosciamo della sua nascita, dei percorsi ideali che ne hanno accompagnato lo sviluppo e delle ragioni interne e geopolitiche che lo hanno condotto alla situazione attuale, sull’orlo di un possibile colpo di stato? Non lo so quanto, ma di certo è poco rispetto alla significativa importanza di un Paese che compie, di questi tempi, 75 anni di vita.

Provo, lo farò certamente in modo disordinato, a mettere in fila alcune annotazioni che ho raccolto qui e lì seguendo il filo rosso delle mie curiosità personali su uno stato che, per la sua intrinseca opacità e per i molti scudi ideologici che si è dato, è sempre difficile da capire.

Le radici dell’identità politica

Erri scrive ..le parole erano più forti delle azioni, le determinavano.. Per capire il puro acciaio che fa da spina dorsale ai padri d’Israele raccogliamo le parole di Ben Gurion sull’olocausto, che egli prende in mano con determinazione e proprio sul lato più doloroso, i bambini ebrei ed i campi di sterminio. Dice ben Gurion: Se avessi saputo che era possibile salvare tutti i bambini della Germania trasportandoli in Inghilterra oppure salvarne solo metà portandoli in Israele io avrei scelto la seconda. A noi non interessa solo il numero di questi bambini ma il calcolo storico del popolo di Israele.

Potente quanto agghiacciante.

La determinazione a creare uno Stato è dunque più forte del senso di umanità e di salvezza. Non credo c’entri la vessata quaestio sulla religione ebraica intesa come guida morale dura e basata su tutte le parti spigolose della Bibbia. Quanto la fede davvero pesi nelle scelte dei leader politici di Israele è tema ben riposto nell’animo umano, dunque imperscrutabile. Forse il sostrato religioso è uno schema davvero vincolante, oppure un pretesto. Invece è ben chiaro quanto questa determinazione sia figlia del loro nazionalismo, del sionismo, cioè del senso profondo di identità culturale e coesione comunitaria che guida la nascita di Israele.

Personalmente vedo il nazionalismo, comunque esso manifesti i suoi molti limiti, come una visione politica delle classi dominanti ed è per me, il nemico principale, l’avversario di sempre. Per dirla in modo sintetico e di certo manicheo, lo vedo come causa di ogni male dai confini di Sparta fino alla guerra d’Ucraina.

Come nasce Israele è cosa nota, basta cercare sulla rete e si raccolgono senza fatica tutte le informazioni necessarie. Rispetto a quello che mi interessa porre come base di questa riflessione ne riporto una che uscì nel 2018 su Città Futura a firma Roberto Caputo

Le organizzazioni militari sioniste iniziarono a portare avanti attentati terroristici contro le autorità coloniali inglesifacendo saltare prima un treno e un commissariato di polizia, poi arrivando a colpire il King David Hotel a Gerusalemme, ovvero il quartiere generale dell’amministrazione inglese, dopo aver fatto esplodere lo stesso quartier generale dell’esercito, il club degli ufficiali inglesi e inviato pacchi esplosivi a ufficiali britannici. La situazione degenerò quando l’Irgun rapì e impiccò due ufficiali inglesi dei servizi segreti, evento che accelerò la fine del dominio inglese sulla Palestina. Più in generale fra il 1946 e il 1947 furono uccisi in attentati sionisti 169 militari inglesi. Menachem Begin, allora leader di Irgun, ricercato e arrestato dagli inglesi come pericoloso capo di un gruppo terrorista, 30 anni dopo diverrà primo ministro d’Israele e nel 1978, nonostante avesse raccontato in modo particolareggiato il suo passato da “terrorista”, ricevette il premio Nobel per la Pace.

Israele nasce figlio di questi padri, Ben Gurion e Begin tra tutti. Gente di ferro, idealisti nazionalisti. Capaci di spargere tutto il sangue che ritenevano necessario per raggiungere il fine che si erano posti: costruire una nazione. Uomini tanto forti moralmente da saper soffrire, e far soffrire, per un’ideale. Giusto o sbagliato che sia.

Sul modo in cui nasce Israele e sui retroterra culturali e politici dei suoi padri fondatori cito un’altra fonte, assolutamente nitida. Nel dicembre del 1948 Albert Einstein, insieme ad altri intellettuali ebrei tra cui la straordinaria storica Hannah Arendt, pubblicò una lettera sul New York Times. Era appena nato lo stato di Israele ed immediatamente centinaia di villaggi palestinesi erano stati intenzionalmente demoliti dopo averne espulsi gli abitanti ed espropriato le terre. La lettera attaccava frontalmente il nuovo partito Herut di Israele e il suo giovane leader, Menachem Begin. Herut ( che sarà la base di quadri e dirigenti del Likud, per anni partito guida d’Israele ) era la parte emersa e legalizzata del grande movimento sionista terrorista Irgun, responsabile di numerosi massacri di comunità arabe palestinesi e di quella orrenda cosa che fu la Nakba, la catastrofica pulizia etnica del popolo palestinese, cacciato dalla propria terra nel 1947-48.

In quella lettera, Einstein e gli altri descrivevano Herut come un “partito politico strettamente affine nell’organizzazione, nei metodi, nel pensiero politico e nell’ascendente sociale ai partiti nazisti e fascisti”. Forse per tacitarlo, forse per usarne il prestigio ad Einstein venne offerto il ruolo di Presidente di Israele. Albert declinò, lui era un’internazionalista ed un pacifista, quindi non disponibile a guidare una nazione. Era contro i suoi principi.

Proprio questo distinguo tra nazionalismo ed internazionalismo, che ha diviso la cultura e la prassi politica di tutte le comunità e dunque anche degli ebrei, dimostra che non vi è intima connessione tra la politica di Israele e le fondamenta religiose ebraiche. Di fatto non esiste su questo tema, come su nessun altro tema, una distintiva questione ebraica. E’ una stronzata fascista. Trotzkj ,il capo dell’internazionalismo socialista, era ebreo, come è ebreo Grossman che polemizza da sempre con il sionismo. Esiste invece una questione politica precisa, che gli abili manipolatori del governo di Tel Aviv mascherano sempre dietro l’assioma: chi è anti sionista è anti ebreo. Sanno bene che, di fatto, non si può leggere Israele con oggettività se si continua ad avere davanti l’orrore della shoah. Non è giustificabile mettere a scudo un massacro, ma è comprensibile.

Va tuttavia ricordato che l’olocausto è un crimine nazista, figlio di un’aberrante ideologia nazionalista. Ma questo orrendo massacro non rende innocente la politica dei governi israeliani, e non si deve mai confondere il sacro col profano. Perché non dobbiamo dimenticare quanto Israele sia espressione di una struttura culturale precisa ed essa non sia tanto etnico religiosa, quanto di parte. Israele nasce e si irrobustisce come paese di schietta destra conservatrice.

Ovviamente dentro lo Stato ci sono i Cittadini e moltissimi israeliani si riconoscono in una posizione politica ben differente, a matrice laburista o pacifista. Questa dinamica delle parti è ben presente quanto naturale in una democrazia. Ma non cambia la natura di fondo di chi gestisce il potere in quello Stato, e del quadro geopolitico dove Israele si inserisce con preciso e ruolo e scopi chiari.

La situazione attuale

Come sappiamo l’instabilità politica di Israele di questi anni ha un preciso connotato: l’emersione nello scenario parlamentare dell’ultra destra fasciosionista. Al governo ritorna Netanyahu, che si ripropone tempo per tempo come una peperonata all’aglio nel cuore della notte. Ora sfoggia la parte ruvida ora la parte sorniona, sempre esprimendo la volontà e le velleità del sionismo.

Quello che fa oggi, ed ha sempre fatto al governo, è prassi evidente. Aizza la guerra con i palestinesi e si fa scudo dietro questo dramma per far passare tutte le prassi oligarchiche e repressive che il suo atteggiamento politico suggerisce. Per contro va detto che i palestinesi non sono più gli stessi di Arafat, autorevole guida socialista e terzomondista, ma sono scivolati dentro un altro nazionalismo di stampo arabo soffiato da Hezbollah a sua volta teleguidato dai maneggioni di Teheran. Lo scontro un tempo quasi di classe è diventato, anche in quei pochi chilometri di Gaza, parte di una guerra nazionalista tra due governi retrivi, guerrafondai, fascistoidi. Di mezzo ci va sempre il Popolo, ma questa è un’ovvietà di cui non frega niente a nessuno come si vede bene nei vari commenti sulla guerra russo ucraina.

Nel suo 75mo anno lo stato di Israele sta utilizzando la reazione emotiva collettiva prodotta da attentati terroristici ( uno schema che in Italia ben conoscemmo ) per varare leggi di limitazione delle libertà personali e politiche. Sulla torta di questa legge ha posto la ciliegina della pena di morte. Una sparata da mettere sul tavolo negoziale con le parti politiche più liberali, che sono già scese in piazza con determinazione, e magari farla sparire con una grande concessione finale. Tanto è la torta che conta, cioè l’insieme di sistemi di controllo e di potenziale coercizione contenuto nel complessivo disposto della legge.

A cosa servirà questo dispositivo di norme e regole restrittive? A controllare e limitare le possibili reazioni rispetto alle scelte del governo in materia di contrattualità del lavoro, di politica finanziaria e di posizionamento strategico in politica estera del governo fortemente condizionato dalla destra/destra che sostiene l’amministrazione Netanyahu. Una concessione autoritaria a costoro che permette a Bibi, astuto e navigato politicante, ed agli oligarchi locali di continuare a governare e gestire il comitato d’affari creato nel tempo.

Recentemente, in questi giorni, qualche polemica con la UE proprio su questa nuova virata repressiva ha suscitato una certa ilarità nei commenti della stampa israeliana. Da sinistra, per quanto questo termine sia improprio da quelle parti, a destra hanno osservato tutti quanto la sgangherata combriccola che passa sotto il nome di Europa Unita contenga esponenti di paesi come l’Ungheria, la Polonia, i Baltici, etc che in quanto a leggi repressive sono a livello Putin. Un pulpito sbilenco da cui certe prediche alla Metsola sgocciolano inutili.

E’ molto probabile che Israele si avvii ad una serie combinata di leggi e di riforme che trasformeranno quel paese così parlamentarista in una repubblica presidenziale sul modello americano. Israele non ha una Costituzione di riferimento su cui appoggiare il sistema di valori guida. Hanno altresì un composto di regolamenti che intervengono a disciplinare i tre pilastri, autonomi ma coordinati, su cui si fonda l’amministrazione della cosa pubblica: il potere Legislativo, Esecutivo, Giudiziario.

La repubblica presidenziale si potrebbe dunque fare senza grandi sconvolgimenti e garantirebbe continuità al potere a chi è in carica per un periodo definito. Non poca cosa per il comitato d’affari che si trova ad abitare un Paese che fa elezioni ad ogni piè sospinto, manco fosse l’Italia, rendendo instabile il quadro di governo. Instabilità politica e capitalismo vanno d’accordo solo quando la prima serve al secondo per proseguire lo status quo. Quando lo ostacola va rimossa.

E’ interessante vedere come a Tel Aviv stiano virando con una certa rapidità verso nuovi sistemi di gestione, perché anche in Italia il sistema si va riorganizzando in questo modo. Non a caso, da noi come in Israele, la destra va al governo con una precisa idea di trasformazione della Repubblica.

Per fare colpi di stato non sono più necessari i carri armati. Bastano alcuni elementi di destabilizzazione sociale ben spinti ed una continuativa manipolazione dell’informazione pubblica. La gente è sufficientemente stufa della politica per lasciar fare senza troppe scene. Non importa se in piazza andremo in centinaia di migliaia, contano le decine di milioni di persone che hanno buttato nel cesso la scheda elettorale o che hanno votato come si è visto. Si va in quella direzione, cioè la stabilizzazione del potere esecutivo, non vedo altri scopi.

Sul tortone della proposta di repubblica presidenziale verrà messa, in modo premeditato, una ciliegina indigeribile, che verrà sacrificata nel negoziato con quel che resta della, diciamo, sinistra. Qui e laggiù.

Del resto, nelle nostre latitudini, possiamo essere più sereni. Avremo modo di contrastare con fiera opposizione le manovre anti costituzionali della destra/destra.

L’opposizione rialza la testa, l’abbiamo appena visto nelle ardenti dichiarazioni sull’operato del modesto Piantedosi ed il terribile naufragio sulle coste di Calabria. Una strage ultima, dopo tante altre, che tutti cavalcano con sconcertante opportunismo. Mi auguro che la stessa durezza dichiarata venga utilizzata all’interno della, diciamo, sinistra verso tutti coloro che, avendo governato per lustri, non hanno fatto una cippa per salvare vite e per creare una politica inclusiva. Su questo tema tutti i pulpiti sono ormai unti, nessuno escluso. Ed è una vergogna, complessiva e di parte.

Si dice che è venuto il tempo del cambiamento nello spazio che si definisce progressista. Esiste una nuova segreteria. Una donna, finalmente e tardivamente, la guida. Un’intellettuale con spessore internazionale. Ed è un profilo che la rende perfetta per il PD e limitrofi. La Schlein è fluida, è liquida, è alternativa, e poi frequenta bene ed a sentirla ci si accorge di quanto parli con proprietà e correttezza politica, anche se non ha mai citato neanche di striscio il necessario scontro di classe.

Probabilmente, per lei, non esiste.

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