Rifletto, con chi ha la cortesia di assistermi, su uno tra i più delicati passaggi che la nostra società affronta in questi anni complessi e contradditori. Lo faccio da velista, scivolando sulle cose che vedo e sento. Che mi colpiscono e mi fanno pensare. Non ho la pazienza, lo spessore umano del palombaro che si immerge in profondità e cerca la radice più profonda per fare piena chiarezza, rischio certamente di essere superficiale. Ma condivido quello che ho in mente, incluse idiosincrasie e banalità, perché la partecipazione, per me, è condividere quello che si ha, poco o molto. Daniel Goleman ci insegna che " Le nostre passioni possiedono una loro saggezza. Guidano il nostro pensiero e la scelta dei nostri valori. Garantiscono la nostra sopravvivenza ". Seguo l’indicazione e parto da ciò che mi appassiona. Oggi che è la giornata internazionale dei Migranti e dei Rifugiati.
Perché non abbiamo il coraggio, come sinistra, di affrontare ora, nel quadro della nuova contrattazione europea, sul problema dei flussi migratori, il tema della Jus Soli ?
Capisco: non è una tematica ‘conveniente’, rischia l’impopolarità, da fiato al salvinismo. E allora? Non ci si intesta una battaglia di civiltà per compiacere, ma per creare le condizioni politiche e legislative in grado di consentire una gestione della cosa pubblica basata su quei valori d’equità, nel rispetto dell’essere umano, che sono la base della visione progressista e riformatrice. Se rinunciamo a questo valore principe la nostra differenza di visione, la nostra identità non hanno sostanza. La sinistra esiste perché rappresenta concretamente la ricerca dell’equilibrio sociale, della giustizia, del contro bilanciamento rispetto ai modelli capitalisti fondati sul primato della ricchezza accumulata e sulla diseguaglianza. Se rinunciamo a questo ruolo vuol dire che abbiamo perduto quel collegamento centrale che giustifica l’esistenza stessa della nostra parte politica.
La legge che permette a chiunque nasca sul nostro territorio di diventare cittadino italiano non è astrattamente od ipocritamente inclusiva, è una legge opportuna, quando non è dovuta. Cosa ce ne facciamo dei principi dell’accoglienza se poi non provvediamo a dare futuro e sostanza a chi sbarca nel nostro continente per costruire una nuova esistenza. Raccogliamo dal mare per buttare nelle stazioni. Salviamo delle vite liberando le nostre coscienze dal male, ma non lavoriamo per costruire il bene dimenticando che senza una progettualità compiuta, senza una precisa assunzione di responsabilità ogni cosa sarà condannata a restare urgenza mal gestita.
Ho sentito dire da alcuni nostri rappresentanti,a proposito delle migrazioni, cose francamente imbarazzanti come “ pagheranno le nostre pensioni / gli immigrati faranno lavori che gli Italiani non vogliono più fare”. Mi sarebbe piaciuto sentire dire senza ambiguità “ dobbiamo aprire i nostri porti perché il mondo appartiene a tutti e perché giusto”. La sostituzione di un valore fondante come la giustizia con l’opportunità giustificativa è, per me, inaccettabile e svilente.
Indubbiamente il continente europeo è di fronte ad una crisi demografica che l’iniezione di nuova popolazione potrebbe compensare, ma il punto politico non può fermarsi a questo. Si tratta di aprire le porte ponendosi chiaro il problema di come gestire l'integrazione tra culture diverse, di individuare spazi di lavoro possibili, progettare percorsi legislativi che consentano a chi arriva di costruirsi una professionalità coerente con il contesto produttivo e di costruirsi, quindi, un futuro. E principalmente di radicare la condivisione, utilizzando tutti mezzi della formazione dalle scuole ai social, per aiutare chi riceve come chi arriva a capire cosa vuol dire rispetto ed accoglienza.
Oggi vediamo, ovunque in Europa, quanto siamo lontani da questa gestione accorta, da processi strutturati equamente. Si va dall'abbandono più spudorato, ai centri lager fino ai quartieri ghetto dove già la contraddizione capitalista ha spinto i residenti più deboli ed emarginati. Come le banlieau parigine dove una generazione che non è più africana e non è ancora francese vive ai margini della ricchezza osservandola da vicino, ma dietro un vetro blindato. Come le periferie di Londra o Roma, i ghetti in Svezia. Pentole in cui ribolle il disagio profondo di chi ha nettamente compreso, con profonda disillusione, che l’accoglienza ha un altro nome molto più specifico.
Sfruttamento.
La difficile pratica dell'inclusione, che per crescere ha bisogno di tolleranza,comprensione e tempo, senza leggi precise e senza la creazione di un consenso si complica e lascia spazio a fantasmi e paure su cui una destra sempre più spudorata soffia costantemente. Il confronto improvviso con altre culture ed altri riti diventa l'occasione per nuove manipolazioni. Le immagini dei musulmani schierati in complessa ed articolata preghiera, nel cuore di Milano o di Roma, in occasione della loro festa religiosa, vengono postate nei social con la grottesca dicitura " Ecco l'invasione". E c'è sempre più di qualcuno che si beve queste bubbole.
Da laico non apprezzo queste manifestazioni, come non apprezzo le processioni cattoliche ( " Viva viva Santo Eusebio / protettore dell'anima mia" ) ma rispetto chi le pratica. Così come mi attendo che vengano rispettate le mie di processioni, con tanto di bandiere. Le città appartengono a chi le abita, se rispetta la legge, e le strade sono di tutti.
Ben Jelloun, lo scrittore marocchino, considera " Siamo sempre lo straniero di qualcun altro. Imparare a vivere insieme significa lottare contro il razzismo ". Perché questo accada bisogna immaginare un sistema di accoglimento che si fondi su pilastri precisi. Leggi integranti, interventi sulle comunità locali, costruzione di percorsi di maturazione culturale perché comprendere la diversità come un valore non è semplice, non si realizza con i talk show o con fotografie commoventi. Si nasce internazionalisti o ci si ragiona su, aiutati da una comunicazione di massa adeguatamente approntata. Ed è un processo lungo che va dunque cominciato subito.
Il tempo non è dalla nostra parte.
Su questo tema io non ho dubbi od imbarazzi , ho la fortuna di essere nato in Sardegna. Una piattaforma nel mediterraneo da cui tutti sono passati. La nostra identità è figlia di quei transiti e di quelle permanenze. Grazia Deledda scriveva “ Noi siamo spagnoli, africani, fenici, cartaginesi, romani, arabi, pisani, bizantini, piemontesi. Siamo le ginestre d'oro giallo che spiovono sui sentieri rocciosi come grandi lampade accese. Siamo la solitudine selvaggia, il silenzio immenso e profondo, lo splendore del cielo, il bianco fiore del cisto. Siamo il regno ininterrotto del lentisco, delle onde che ruscellano i graniti antichi, della rosa canina, del vento, dell'immensità del mare. Siamo una terra antica di lunghi silenzi, di orizzonti ampi e puri, di piante fosche, di montagne bruciate dal sole e dalla vendetta. Noi siamo sardi”.
Opportunamente è stata ricordata in queste settimane per ragioni apparentemente secondarie come lo sport. Questa è la mia identità. Mia madre era Piemontese, mio padre Catalano, mio bisnonno Siciliano. Sono un meticcio, sono un uomo del Mediterraneo. Non accetto di guardare chi esce dall’acqua come un estraneo. E sono un migrante. In tutta la mia vita ho lavorato in molte città, Italiane ed Europee. Ovunque mi sono sentito a casa perché mi hanno educato a pensare che esiste un’unica razza, quella umana, che la nazione è un confine tracciato per imprigionare.
Le distinzioni evocate, anche nell’ultimo incontro di Malta, tra migranti economici o profughi mi sembrano sconcertanti. Il primo diritto dell’essere umano che abita il Pianeta (ahinoi, a tutte le latitudini senza alcun rispetto) è la possibilità di scegliere dove vivere. Che diamine significano queste categorie, che ho il diritto di spostarmi solo se crepo di fame o mi sparano addosso? Certo se scelgo un condominio per abitare è mio dovere rispettarne le leggi e le regole. E’ ovvio, vale per tutti. Ma chi ha il diritto di impedirmi di entrare, di trovare un lavoro, fare figli, affittarmi una casa, di sentirmi membro della comunità anche se vengo da fuori ed infine, se voglio, diventarne cittadino e parte integrante. Suona la sveglia, sul tema, la Chiesa.
Rivolto ai sovranisti Papa Francesco dice in una straordinaria intervista a Repubblica “Si vuole bloccare quel processo così importante che dà vita ai popoli e che è il meticciato. Mescolare ti fa crescere, ti dà nuova vita. Sviluppa incroci, mutazioni e conferisce originalità". Figlio di migranti Francesco si esprime senza timore. Chiaro e definitivo.
Questa dichiarazione, così vera e così inattesa, mi ha fatto riflettere anche ad un altro livello. Se un gesuita esperto si dichiara in questo modo significa che il profondo del sistema ecclesiastico sta prendendo posizione sul tema e si prepara a colmare, in tutto il Mondo, un vuoto politico che la sinistra, divenuta fin troppo prudente, evita continuando ad arretrare ed a perdere spazi politici e pezzi di identità. I confini sono ‘tancas’, frangibili muretti di pietra grezza tirati su per delimitare il podere. Per difendere il potere. La sinistra canta da sempre l’Internazionale non sarebbe ora di ricordarne il valore ?
La radice ambigua della sinistra, sul tema del nazionalismo, ha una sua fisionomia precisa. Nasce dallo stalinismo. Non a caso il vecchio PCI innalzava due bandiere. La degenerazione stalinista ha costretto la visione aperta ed integrale tipica del primo socialismo dentro le tancas del rigorismo egemonico e questo sottile veleno ha intriso parte delle radici culturali di chi si è formato nelle scuole quadri dottrinarie. Per decenni i temi del terzomondismo, dell’anticolonialismo hanno avuto, nella sinistra ex-stalinista europea, un ambiguo posizionamento ancora non del tutto superato. Lo scontro in Africa tra movimenti di liberazione e paesi invasori è stato orientato dalla URSS in chiave tattica nello scontro tra superpotenze ed ha alimentato le tribalità generando quel disequilibrio,quella frammentazione interna che ancora pervade i grandi stati centrafricani come ad esempio il Congo. Il continente ha pagato e paga la manipolazione politica delle spinte indipendentiste e le guerre a bassa od alta intensità che ne conseguono e lo affliggono impongono livelli di sofferenza inimmaginabile.
E’ ipocrita parlare delle tremende condizioni dei migranti in Libia se non si considerano le ragioni di partenza, dal terrorismo manipolato in Nigeria, il più grande produttore di petrolio del continente, alle guerre per i diamanti in Sierra Leone, allo sfruttamento delle risorse naturali che la Cina sta realizzando indebitando i Paesi interlocutori. Oggi la violenza colonialista segue percorsi più torbidi, ma lo sfruttamento indiscriminato continua generando le condizioni impossibili di vita in cui versa buona parte del continente. Accennavo al terrorismo in Nigeria, uno dei Paesi maggiormente popolati e potenzialmente ricchi dell'intera Africa. Appare evidente che ne siamo occulte finanziatrici le oil companies , le stesse che hanno agito più apertamente determinando, come lobby potentissima, gli ingiustificabili interventi militari in Iraq o Libia. Solo la destabilizzazione dei paesi produttori, con il restringimento dell'offerta che ne consegue, riesce a mantenere elevato il prezzo di una materia prima che interessa sempre meno. Ma nessuna denuncia, nessun passo è stato fatto dall' Europa. Si finge che il problema non ci riguardi.
Chiaramente non si esce da questa situazione drammatica del terzo mondo, che è inoltre concausa dello sfascio ambientale, senza una visione complessiva ed un intervento internazionale, un “piano Marshall” per i paesi più poveri accompagnato da una robusta riduzione del debito, ma non si può nemmeno aspettare decisioni unanimi. Bisogna fare dei primi passi concreti in ogni Paese ricco. Spetta alla sinistra , per quel suo ruolo cui facevo cenno, diventare il motore di questa spinta giusta verso il futuro. Sono compiti precisi ed evidenti che al momento purtroppo non appaiono nell' agenda politica dei Governi, anche quelli socialdemocratici. Per la Francia, paese dalla lunga storia colonialista, vuol dire sospendere la doppia politica valutaria in Africa e per l’Italia, porto d’approdo delle migrazioni, vuol dire affrontare il problema costruendo percorsi di integrazione che partano da una legge equa come la Jus Soli.
La legge va proposta, ora, senza se e senza ma.
La sinistra non può, non deve sottrarsi a questa responsabilità. E’ l’unica risposta dirimente, l’unica frontiera accettabile. La nostra vera battaglia identitaria perché tesa a sconfiggere la più subdola tra le diseguaglianze: quella tra esseri umani. La guerra tra poveri.
Dobbiamo far pressione affinché subito la nostra rappresentanza in Parlamento si ponga come parte attiva e come proponente di questa legge così significativa. Se necessario e possibile anche in forma referendaria, costringendo a schierarsi in modo limpido e definitivo, davanti ad un tema civile, tutte le forze politiche e sociali e la Chiesa stessa. Si dibatterà a viso aperto proponendoci all’intelligenza degli Italiani che sanno sempre cosa scegliere davanti a quesiti importanti sui diritti fondamentali. Ci si scontrerà aspramente con le componenti impaurite o xenofobe della società, con i tromboni della destra populista, con i nuovi fascismi, ma sarà una battaglia giusta intellettualmente e politicamente.
Dobbiamo farlo perché, razionalmente, è l’unica scelta che può evitare un possibile scontro sociale di proporzioni imprevedibili. Dobbiamo farlo perché umanamente e civilmente corretto. Dobbiamo farlo parlando per primi , perché ci spetta e per una ragione morale, ideale e storica più profonda di ogni altra ragione .
Dobbiamo farlo, cari Compagni, perché noi siamo noi. O non siamo niente.