Colgo lo spunto offerto dalla proposta di discussione pubblica avanzata dalla redazione di MicroMega sul conflitto tra israeliani e palestinesi. Non pretendo qui di affrontare l’enorme complessità della vicenda, già tratteggiata in sintesi nella proposta redazionale. Mi limito a toccare i temi che mi appaiono di maggior rilievo per il superamento della guerra. Il punto di riferimento iniziale è per me la parola d’ordine “terra in cambio di pace” che i più grandi scrittori israeliani hanno, ognuno con il proprio accento, adottato e sostenuto. Invano. Un amico esperto mi ha spiegato che questi autori sono molto letti in Europa e nel mondo, mentre in Israele sono circondati da ben poco ascolto. Quindi i loro consigli non hanno avuto e non hanno tutt’oggi presa in Israele. Sarà quindi perché da lontano non sono in grado di misurare tutta la complicazione del conflitto in atto, ma a me pare che “terra in cambio di pace” sia ancora una parola d’ordine seria, fondata, giusta. Israele ha bisogno di terra per vivere ma non può pretendere di avere tutta la terra che vorrebbe.
Se continua a sottrarre terra ai palestinesi avrà solo guerra. I palestinesi hanno bisogno di terra e solo se l’avranno potranno dare la pace. La terra che hanno ora, poca, frazionata, schiacciata e continuamente usurpata, nessuno al mondo può pretendere che sia sufficiente a scongiurare la guerra. Israele deve riconoscere il pieno diritto dei palestinesi alla terra e soddisfarlo con la rinuncia necessaria al bisogno. Questo è stato aggravato in proporzioni fino a poco fa impensabili dalla devastazione della striscia di Gaza.
“Terra in cambio di pace” vuol dire prima di tutto che Israele dovrebbe rinunciare alla Cisgiordania. Come si può considerare palestinese una terra frazionata da centinaia di colonie armate appoggiate dall’esercito e dedite all’appropriazione forzosa dei terreni confinanti? Non so se gli scrittori che apprezzo abbiano mai esposto così la questione, ma a me sembra che l’applicazione della parola d’ordine possa essere presa sul serio solo se realizzata con la completa rinuncia alla Cisgiordania: un gesto sostanziale che renderebbe possibile il riconoscimento, da parte palestinese, del diritto all’esistenza di Israele.
La rinuncia territoriale mette subito in rilievo la questione degli ultraortodossi, sempre più invadenti nella composizione demografica, nella società e nella politica israeliana, fino a diventare ormai da tempo arbitri sulla formazione dei governi. Fenomeno finora inarrestabile che può forse essere ridimensionato ora dal discredito, spero irrimediabile, di Netanyahu. Israele per tornare a essere laica e progressista deve limitare la prepotenza ultraortodossa. Perché mai i giovani ultraortodossi devono essere esentati dal servizio di leva? Che pretesa è quella di obbligare il proprio Paese alla guerra perenne e allo stesso tempo mettersi al riparo mentre i giovani laici rischiano ogni giorno la vita? La vita dei giovani ultraortodossi è un bene comune da proteggere (e in nome di che cosa?) mentre la vita degli altri è una risorsa da sfruttare senza limiti? E perché poi gli ultraortodossi, quando gli pare, scelgono di armarsi e uccidere per le operazioni di usurpazione territoriale in Cisgiordania, ma rifiutano l’arruolamento per i compiti difensivi dell’esercito regolare? (Si potrà obbiettare che oggi a Gaza c’è ben poco di difensivo, ma l’ultraortodosso non potrà negare che quella guerra, cui lui/lei pretende di sottrarsi, ha, sulla carta, il compito di difendere il suo stesso stato). In definitiva la riduzione della prepotenza ultraortodossa può contribuire alla soluzione della questione territoriale.
Nonostante il rischio che le due opinioni appena tratteggiate possano apparire ingenue, sono convinto che Israele debba affrontare le due questioni. Più difficile mi appare fare proposte per il lato opposto del conflitto. I palestinesi hanno, oltre alla guerra con Israele, due grossi problemi. Uno con la propria rappresentanza: il dissolvimento dell’Autorità precedente, derivata da Al Fatah e dalla sua evanescenza in prassi corruttive, e la sua sostituzione con Hamas, hanno portato i palestinesi in un cul de sac micidiale. Hamas ha usato gli ingenti finanziamenti ricevuti dai paesi arabi (col nulla osta di Netanyahu) non per alleviare le condizioni del suo popolo, ma per costringerlo in un bagno di sangue senza speranza. Riusciranno i palestinesi a sostituire la loro rappresentanza così inadeguata nel passato e così dannosa nel presente? Possono farlo solo loro e nessuno da fuori può far loro lezione. L’altro problema è l’appoggio dei paesi più o meno prossimi. I quali sostengono la causa palestinese solo quando e nella misura in cui conviene loro (basti pensare al Settembre nero che la Giordania riservò ai palestinesi esuli). Tutto è aggravato dalla natura specifica del regime che in questa fase è in prima linea nell’apparente sostegno. L’Iran degli ayatollah, regime autoritario, antidemocratico, oppressore sistematico delle proprie donne, più che aiutare i palestinesi fomenta, anche mediante la guerriglia degli Houthi, un’escalation del conflitto che infligge ai palestinesi stessi un destino infelice.
In sintesi, purché lo voglia, Israele ha la facoltà di adottare le scelte che potrebbero avviare il superamento della guerra. Il popolo palestinese, nelle condizioni attuali, ha un’analoga possibilità?