I luoghi
di detenzione degli animali sono quasi sempre inviolabili, ben
lontani dai nostri occhi.
Noi donne abbiamo il potere e
il dovere di smascherare questi luoghi, di capire cosa
accade
veramente e di fare qualcosa per interrompere questa immane
sofferenza di esseri indifesi.
Parliamo dei luoghi dove esseri
senzienti sono rinchiusi e sottoposti alla pratica della
vivisezione.
Parliamo dei luoghi dove esseri sottomessi sono
allevati, maltrattati, stuprati, separati dai loro figli
per
rubare loro latte, uova, carne, pelle, lana…
Parliamo dei luoghi
dove esseri sensibili sono rinchiusi a vita per divertire gli
spettatori umani.
Potremmo continuare l’elenco perchè purtroppo
è lungo. Ma ci fermiamo qui.
Quello che vogliamo dire a tutte voi
è che quando un essere viene sottomesso e schiavizzato, sia
esso
un animale umano, un animale umano donna, un animale non umano… noi
dobbiamo dare
voce a questa sofferenza per interromperla.
Noi
donne possiamo farlo.
Non dobbiamo fare l’errore
di distrarci o far finta che questo mare di dolore non esita perché
non ci
riguarda. La sofferenza degli animali indifesi è anche la
nostra sofferenza e come donne dobbiamo
capirla e quindi agire di
conseguenza.
Chi meglio di una donna può capire, se solo si ferma
un attimo a pensare, quanto strazio può
provare ad esempio una
mucca alla quale vengon portati via la sua cucciola o il suo
cucciolo.
Questo accade costantemente nel processo di produzione
del latte. Noi rubiamo il latte alla madre e
mandiamo al macello
il cucciolo maschio oppure, se femmina, la inseminiamo a forza,
perché
diventi, come mamma, una produttrice di latte suo
malgrado, per poi macellarla dopo pochi anni,
quando esausta, non
ne fa più abbastanza.
E’
questo che vogliamo?
Animali/donne
trattate come
macchine per produrre qualcosa (il latte) che
diventa una merce , fonte di guadagno per animali umani?
Facciamo
di tutto per cancellare dalla nostra mente la relazione fra i
“prodotti” e gli animali ai quali
li rubiamo.
Senza gli
animali non potremmo mangiare carne. Ma si parla sempre di carne solo
da un punto di
vista gastronomico, il che ci fa sentire meno
responsabili della loro morte.
Noi
donne non macelliamo la carne, ma la cuciniamo.
Le
trasmissioni più seguite in tv sono quelle di cucina. Ma nel
linguaggio delle conduttrici, dei
cuochi e delle cuoche, dei VIP
che spesso si prestano a cucinare, quando si parla di carne (o
altri
prodotti animali) da mangiare, l'animale vivo viene rimosso:
si parlerà sempre di carne in termini d
coscia, petto,
bistecca, cotoletta, hamburger, salame, prosciutto, formaggio, latte,
uova…
La sofferenza che la violenza della morte dell'animale
che è stato sfruttato/sottomesso/macellato
viene rimossa nella
misura in cui le parti frantumate del corpo dell'animale vengono
rinominate per
occultare il fatto che un tempo erano vivi o che
appartenevano di diritto a quell’individuo. Dopo la
morte le
mucche da latte diventano arrosto, ragù, spezzatino, ecc.
Il linguaggio comune riduce la
realtà materiale della violenza sugli animali a metafora quando
si
parla di “macelleria sociale”, un luogo comune di questi
tempi, per descrivere per esempio,
l'orrenda situazione degli
immigrati a Lampedusa.
Oppure si parla di “case
di macellazione” e “maison d'abbattage”,
per identificare i luoghi dove sei
o sette ragazze servono
ciascuna da 80 a 120 clienti per notte. Queste ragazze sono
generalmente
immigrate, ucraine, polacche, romene, nere.
Gli
stessi attrezzi della pornografia sadomasochista sono collari da
cani, frustini, corde, lacci, tipici
elementi di controllo di
dominio sugli animali, che anche diventano attrezzi di dominio
sulla
donna.
Un ristorante americano (di cui non facciamo il
nome) prima di diventare una rivista pornografica
presentava nella
copertina del suo menù un sedere di donna e dichiarava :“serviamo
le carne
migliori della città”
Natiche femminili sono
marchiate come “tagli scelti” nella copertina di un altro
menù.
Intervistati nelle loro fantasie sessuali, molti uomini
evocano scene pornografiche di pezzi di corpi
senza volto,
impersonali: seni, gambe, vagina, culi.
Così
come le carni per il consumatore, sono ridotte esattamente a questo:
pezzi di corpo, senza
volto.
Dopo aver
visto un cartellone diffuso nella macellerie che raffigurava il corpo
di una donna
sezionato come quello di un animale macellato, con
vari pezzi, suddivisi e catalogati, Dario Fo e
Franca Rame hanno
scritto una sceneggiatura:
“C'era
un disegno di una donna tutta divisa in quarti. Sa, come quei
cartelloni che si vedono nelle
macellerie con su la vacca divisa
in regioni come la carta d'Italia. Ed ogni punto erogeno
era
pitturato con colori tremendi a seconda della sensibilità
[…]”
Il fatto stesso che gli uomini si
definiscono” stalloni” non fa che confermare e rinforzare il
modo
peculiare ed aggressivo con cui il termine “carne” viene
usato per riferirsi alle donne. Le donne
sono possedute come carne
dallo stallone.
Tutto ciò è così radicato nella nostra cultura
, caratterizzata da uno spiccato antropocentrismo, dove
l'uomo,
maschio, bianco, eterosessuale, cristiano, mussulmano è al centro
dell'universo, che le
donne stesse spesso usano il linguaggio
maschile senza esserne consapevoli.
Le donne diventano così da
soggetti discriminati a soggetti di discriminazione,
riducendo nel
loro linguaggio, la realtà materiale della violenza sugli animali a
metafore.
Le donne mangiano la carne, lavorano nei macelli, alle
catene di montaggio dove i pulcini maschi
delle galline ovaiole,
vengono stritolati vivi, senza rendersi conto di essere complici di
un sistema di
sfruttamento di esseri senzienti.
Marguerite
Yourcenar, premio Nobel per la letteratura, dalla parte degli animali
fin dall'adolescenza
ha lasciato di che riflettere nei suoi
scritti:
“Mangiare carne è digerire agonie di essiri viventi.”
“Gli animali hanno propri diritti e dignità
come
te stesso. E’ un ammonimento che
suona quasi sovversivo. Facciamoci allora sovversivi:
contro
ignoranza, indifferenza, crudeltà.”
Le
donne come gli uomini usano la parola bestia e nel dire bestia, o
bestiale, piuttosto che animale,
si crea un confine maggiore tra
noi e loro, tra umani e non umani.
La parola bestia divide: non
volto, ma muso, la voce dell'animale non ha voce, ma suoni, i sui
arti
diventano zampe, la sua volontà istinto, non c'è
intelligenza o emozione e se c'è è irrilevante.
Bestia si usa
quando si vuole degradare tutti coloro che non si ritengono degni di
far parte della
nostra comunità.
Così come le bestie sono
escluse dalla cittadinanza umana, nonostante siano esseri senzienti,
cioè
capaci di dolore, di piacere, di amore, di preferenze, così
come “bestiali” sono gli umani che il
potere
maschile decide di degradare al rango di non cittadini (che
macchiano di azioni spesso
lontane dal mondo animale non
umano).
Carol J.Adams, americana, femminista/vegan, scrive
“quando le femministe radicali usano, come
se fosse
letteralmente vero, metafore animali in relazione alle donne, esse
stesse si appropriano e
sfruttano metaforicamnete ciò che viene
realmente fatto agli animali […] il pensiero femminista
radicale
partecipa linguisticamente allo sfruttamento e alla negazione del
referente assente […]
Ciò che manca in gran parte del pensiero
femminista, che fa uso di metafore basate sull'oppressione
animale
per mettere in luce l'esperienza delle donne, è la realtà che si
nasconde dietro le metafore. Il
linguaggio delle teorie femministe
dovrebbe invece descrivere e sfidare l'oppressione, riconoscendo
fino
a che punto queste due forme di oppressione sono culturalmente
analoghe ed interdipendenti”
Tratto da “Lo stupro degli
animali, e la macellazione delle donne” in Liberazioni “rivista
N.1 del
2010.
Noi donne diventiamo complici di
quegli uomini discriminatori non solo quando usiamo il
loro
linguaggio, ma anche quando, come consumatrici, compriamo
oggetti fatti con la pelle degli
animali, con la loro pelliccia,
con la loro lana. Dobbiamo sempre chiederci da dove arriva
un
“prodotto” che prima è appartenuto di diritto ad un altro
essere senziente.
Non è un caso che i mattatoi e gli allevamenti,
siano lontani dalla città perchè ciò ci permette di
non sentire
il maiale urlare quando ancora vivo viene attaccato ad un gancio per
essere macellato,
non vediamo scorrere fiumi di sangue, non
assistiamo al cucciolo vitellino che viene portato via
dalla madre
appena nato, non vediamo negli occhi degli animali lo sguardo della
paura e della
morte.
Se ognuna di noi dovesse uccidere il pollo
che mangiamo, il vitellino, la mucca, il maiale, la
pecora,
l'agnello… molto probabilmente non saremmo in grado di
sentirci artefici di tanta violenza, non
riusciremmo a mangiare la
carne delle nostre vittime!
Ma mentre le donne sono comunque
trattate come pezzi di carne e si sentono, quando
violentate,
emotivamente come macellate, gli animali sono
effettivamente ridotti in pezzi di carne.
Immagini
e consumo sono strettamente collegati così come consumo e violenza.
La cultura
patriarcale, antropocentrica e specista, trasforma gli
animali non umani viventi in cadaveri da
consumo.
Anna
Maria Ortese scrive nel “Piccolo Drago”:
“Disprezzo ed
ingiustizia sono dell'uomo. […] io sono più che mai dalla parte
delle Bestie, mi
sento loro parente, o comunque un amico, un
devoto: e grande è la malinconia che provo nel
sapermi
appartenere alla specie umana. Non che questa non abbia una sperba
bellezza e spesso
bontà: ma perchè tutto ciò che possiede mi
sembra frutto di un furto. Come creatura umana - ecco
la
disperazione - mi sento da sempre : Assassino e Ladro.”
Concludo
quindi dicendo ancora: l’appello che lancio alle donne è di farci
carico del dolore
degli animali, condividerlo e diventare parte
attiva del movimento antispecista e vegan. Chiedo, in nome della
filosodia antispecista,
a tutte voi di non discriminare e
non sopraffare altri esseri senzienti, solo perché li crediamo, a
torto,
lontani da noi.
Noi donne possiamo farlo.
Se mi volete contattare :
stefaniasarsini@hotmail.it