Il popolo degli animali. Perché ribellarsi è giusto

di Marco Maurizi - 08/10/2018
Discorso tenuto in occasione della Giornata mondiale per la fine dello specismo 2018

<p>Uno spettro si aggira per l’Europa. È lo spettro dell’animalità. La
nostra animalità repressa, di cui abbiamo paura e che ci terrorizza
nella libertà senza confini e senza scopo della vita animale. E per
scacciare questo spettro terrorizziamo la vita animale nell’altro: la
incarceriamo, la mortifichiamo, la prosciughiamo, la spezziamo. Ogni
vita animale piegata e infranta è una vittoria dell’umano contro lo
spettro della sua animalità che lo ossessiona. Una vittoria di Pirro.
Perché ogni violenza perpetrata sul vivente non fa altro che dimostrare
la cieca voracità della bestia umana, l’unico animale, come diceva
Derrida, cui abbia senso attribuire l’aggettivo “bestiale”. Vivamo in
tempi in cui la nostra animalità ci viene incontro ovunque, e ovunqe ne
fuggiamo inorriditi. Nelle miliardi di vite animali che in questo stesso
istante stanno agonizzando nelle nostre industrie, nelle grandi
migrazioni dei popoli reietti che in questo stesso momento stanno
piangendo in un lager libico o affogando nel mediterraneo. La vita senza
protezione, la vita che chiede solo di vivere e verso la quale non
usiamo né pietà, né giustizia ma solo il potere distruttivo
dell’indifferenza generalizzata, questa vita ci guarda con occhi
terrorizzati e ci terrorizza perché ci dice: io sono come te. Accettare
questo sguardo, restituire questo sguardo implica un cambiamento nella
nostra percezione di noi stessi, in quell’immagine di umano maschio
bianco razionale tecnocratico e dominatore nella cui illusione di
potenza viviamo come dormienti.<br>
Viviamo una sorta di sonnambulismo collettivo, che ci separa gli uni
dagli altri, vendendoci sogni da quattro soldi che ognuno sogna per
conto suo. Dagli oscuri recessi della vita marina ai grattacieli più
avveniristici è invece una sola vita che palpita e guizza
nell’enigmatico silenzio del cosmo. Noi facciamo parte di quella vita,
ma continuamo ad agire come se essa ci fosse estranea, anzi, ci appare
un ingombrante peso di cui vorremmo liberarci. Noi siamo qui a dirvi
oggi che smettere di considerare la vita animale una merce non vi
toglierà nulla se non l’amara solitudine in cui vi siete rinchiusi.<br>
Siamo soli: nelle nostre stanze, nei nostri uffici, nelle nostre
fabbriche. Siamo anonimi: nelle nostre metropolitane, nei centri
commerciali, nelle statistiche elettorali. E ogni tanto ce lo diciamo:
cominciamo a uscire da queste mura, cominciamo a riprenderci la vita. Ma
non potremo farlo se continueremo a imprigionare e togliere la vita
degli altri. Il vitello che piange la madre, i pulcini mandati al
massacro in massa perché superflui. Non sono solo simboli della nostra
solitudine, del nostro essere anonimi. Sono vite che un sistema di
annientamento ha reso nulle, che ha sequestrato, isolato, svuotato e
infine cancellato. Contempliamoci in questo sistema di reclusione e
tortura perché questo noi siamo, questo è il mondo abbiamo prodotto,
questa la quotidianità infernale che scorre silenziosa nel frastuono
delle nostre vite affannate. Come possiamo pensare di vivere come
signori e padroni di un sistema che è il signore e il padrone delle
nostre vite? Nessuno si illuda di installarsi al centro di un meccanismo
di sfruttameno e distruzione senza esserne travolto. Siamo soli, siamo
anonimi. E lo saremo sempre finché la vita animale soffrirà solitaria e
anonima nelle camere di tortura della nostra tirannia di specie.
Scrolliamoci di dosso il vestito crudele dell’imperatore. Perché esso ci
illude di essere quel potere che annienta anche le nostre vite. È solo
nella nudità del popolo animale che possiamo sperare di riconquistare
una libertà che possa essere davvero per tutti.<br>
Esiste un momento nella storia di una moltitudine in cui questa
moltitudine scopre di essere un popolo. Scopre di avere qualcosa in
comune, scopre di potersi riconoscere in questa comunità, scopre di
poter condividere un mondo. Non si è un popolo perché si abita la stessa
terra, o si condidive uno stesso linguaggio o una cultura: l’anima di
un popolo è una conseguenza, non una premessa. Essere un popolo,
scoprirsi un popolo, vuol dire infatti qualcosa di più che “essere”:
significa agire, costruire, produrre un mondo in comune. Si scopre di
essere un popolo quando si agisce in modo conseguente e le conseguenze
delle nostre azioni ci rivelano a noi stessi la nosta comune
appartenenza.<br>
Ebbene essere animali o essere terrestri significa essere un popolo. Ed è
arrivato il tempo che noi scopriamo questo nostro essere e scopriamo i
diritti e i doveri, o meglio ancora, le potenzialità che derivano da
questo nostro essere un popolo. Essere animali o essere terrestri
significa essere un popolo. È al tempo stesso il tramonto dell’idea
tradizionale di popolo e la sua massima realizzazione. Perché un tempo
un popolo era identificato dai confini che lo serravano in un’identità,
dall’orgoglio che lo divideva dagli altri popoli, in un lotta per
l’accaparramento delle risorse; essere popolo significava esclusione del
diverso, trionfo del conformismo interno, fede in una patria e in un
dio.<br>
Il popolo degli animali, il popolo di noi terrestri è fatto di un’altra
pasta, guarda verso un orizzonte che abbraccia, non esclude. Ciò che noi
oggi possiamo fare riconoscendo la nostra discendenza ancestrale dalla
natura, l’amicizia che abbiamo tradito con gli altri animali, è
ammettere finalmente che il mondo che condividiamo non ci appartiene.
Kant diceva che non c’è alcun merito nell’essere nato al di qua o al di
là di una frontiera, e per questo l’accoglienza è un dovere. Noi, tutti,
umani e animali, apparteniamo alla terra, non lei a noi. “Rimanere
fedeli alla terra”, come scriveva Nietzsche, significa scoprire la
radice comune del nostro appartenerci come esseri animali, sofferenti,
bisognosi di protezione dalla violenza e dal sopruso.<br>
Quando portiamo il nostro messaggio di pace nei confronti degli altri
animali, ci guardate con sospetto, ci vedete come estremisti, come pazzi
che vogliono mettere il mondo a soqquadro. Guardatevi intorno e
giudicate voi stessi: è questo l’ordine di cui andate tanto fieri? Quale
disordine può portare la nostra parola di amicizia nei confronti degli
animali nel vostro caos organizzato di sfruttamento e morte? Ve lo
diciamo noi: è il disordine felice di un’umanità che si è riappacificata
col proprio altro e, dunque, anche con se stessa. All’indomani della
rivoluzione francese Saint Just disse: “la felicità è un’idea nuova in
Europa”. Intendeva la felicità politica, quella che arride a un popolo
quando si erge contro la tirannia e prospera di una vita condivisa nella
reciprocità e nell’egualitarismo. L’idea che gli animali siano un
popolo, che noi facciamo parte del popolo degli animali, implica che la
felicità è un’idea che possiamo e dobbiamo condividere con loro. Ed è
contro la tirannia dell’Uomo che dobbiamo insorgere, anche perché
dall’abbattere questa tirannia non abbiamo nulla da perdere, come diceva
Marx, tranne le nostre stesse catene. Non c’è felicità
nell’accumulazione e nell’accaparramento, non c’è felicità nello
sfruttamento e nella prevaricazione. La felicità non si costruisce nei
calcoli meschini ma ha la forma smisurata dell’inatteso e
dell’incommensurabile. Edificando un mondo a nostra immagine e
somiglianza, in cui programmiamo al dettaglio la nostra vita e la morte
altrui, ci condanniamo a cancellare ogni traccia di questa felicità,
rendendo impossibile l’incontro con l’altro, umano e animale,
contemplandoci nello specchio mortifero dell’egoismo generalizzato.<br>
Nessuno sfugge più a questa turpe legge dell’io che non sa più dire noi.
Anche se è solo dicendo “noi” e se è solo includendo in quel “noi” gli
altri animali che potremmo disinnescare la catastrofe sociale,
umanitaria, ecologica, preferiamo alzare altri muri, gridare contro gli
ultimi, rintanarci nelle miserie invidiose dei populismi. L’apertura del
popolo animale è l’antitesi del populismo, forse l’unico antidoto
possibile. I popoli che hanno sofferto per decenni lo strapotere delle
cricche dominanti ora insorgono e si offrono in pasto ai demagoghi che
promettono libertà in cambio di odio verso il diverso, che continuano a
offrire una speranza solo togliendola a chi sta peggio. Ancora e ancora
sono i più umiliati e offesi a farne le conseguenze. Non a caso i leader
del nuovo irrazionalismo dilagante amano i cacciatori, le armi,
ostentano il piacere della carne, disprezzano l’uguaglianza di genere.
Sono alfieri della stessa cultura guerrafondaia e machista che ci ha
portato fin qui: “maschi” veri, pragmatici, per i quali l’ambiente è
terreno di conquista e l’ecologia un inutile intoppo. Andiamo così verso
conflitti sempre più intesi, su scala sempre più ampia, migrazioni di
popoli si affacciano sul prossimo futuro, una violenza endemica che
scuote la coscienza delle nostre metropoli sempre più grandi,
disfunzionali, brutte, abbandonate a se stesse. Ecosistemi impazziranno,
intere specie spariranno, altri miliardi di individui animali saranno
sacrificati. In questo clima di odio, diffidenza, disperazione sembriamo
tutti destinati al “macello”, termine con cui Hegel, non a caso
descriveva la storia dei popoli. Tutti coinvolti, nostro malgrado, in
questa guerra che l’umanità ha dichiarato contro il resto del vivente e
che la dilania dall’interno. Ebbene noi siamo disertori della vostra
guerra. Noi siamo disertori della vostra umanità che non ci rappresenta.
Noi non siamo in grado di pensare l’umanità come un marchio di
superiorità o restare cinicamente indifferenti al destino di chi soffre.
Per noi, “essere umani” significa riconoscerci non figli di un dio
sterminatore, ma animali che vogliono vivere una vita di pace e di
condivisione senza barriere, senza esclusione, senza prevaricazione. E a
coloro che si riconoscono figli di un dio d’amore, chiediamo: quale
amore può giustificare la pianificazione industriale del genocidio
animale? Quale amore può rendere accettabile lo stupro, lo sgozzamento e
tutte le forme di violenza che perpetriamo su animali inermi?<br>
Noi ci chiamiamo fuori da una prassi sociale fatta di discriminazione
del diverso in ogni sua forma, dalla logica del profitto che ci
trasforma in cose, da un apparato tecno-scientifico che rende
manipolabile a piacere il vivente. Perché questi tre pilastri sostengono
lo stato attuale del mondo e lo spingono verso un’apocalisse
annunciata. Odio razziale e violenza patriarcale servono a giustificare e
imporre la mercificazione e lo sfruttamento del lavoro; la tecnologia
intensifica questo sfruttamento, produce meccanismi polizieschi di
controllo sulla vita, crea nuovi organismi da cui generare profitto ecc.
Una spirale di dominio che è difficile da spezzare se non la si osserva
nella sua interezza e nel suo funzionamento. Guardare il mondo dalla
prospettiva degli animali significa contestare alla radice questi
pilastri, vedere la catena nella sua interezza, che è poi l’unica
possibilità che abbiamo per tentare di spezzarla. Cosa cambia nel nostro
modo di stare al mondo quando scopriamo che l’umano è solo una delle
forme assunte dalla natura per gettare uno sguardo sul mondo? Gli
animali ci precedono nell’evoluzione e, probabilmente, ci
sopravviveranno. Non dovremmo chiederci cosa possono fare per noi, ma
cosa noi possiamo fare per loro. Che contributo sta lasciando la nostra
specie su questo pianeta? Di cosa potremmo essere fieri una volta che
non ci saremo più? Di ben poco se tutto ciò che abbiamo prodotto finora è
la nostra stessa miseria e la morte programmata di miliardi di animali,
la sfarzosa opulenza delle elite e le urla e il sangue di quelli che
Brecht chiamava i “corpi torturabili”. Noi vogliamo invece un mondo in
cui la diversità non sia invocata a giustificare l’oppressione ma lo
scambio; immaginiamo una società umana che si lasci attraversare dalle
società animali con cui condivide la biosfera, immaginiamo un mondo in
cui dare del “porco” a qualcuno non sia più un’offesa. Perché il nostro
linguaggio rispecchia gli stereotipi della discriminazione umana e il
disprezzo che la tradizione spiritualista delle grandi civiltà riserva
ai non-umani, dove per essere veri uomini occorre spezzare ed estirpare
dentro di se tutto ciò che ricorda l’imprendibilità dell’animale: la
donna, il bambino, il sognatore. Ma non saremo mai pienamente umani se
non sapremo essere donna, bambino, sognatore, se non torneremo a
risvegliare l’animale che abbiamo scacciato.<br>
Impariamo a guardarlo dall’alto questo mondo, con gli occhi tristi di
Laika, la cagnolina mandata a morire da sola nello spazio perché l’uomo
potesse espandere il suo dominio oltre l’atmosfera. Da lassù vediamo un
mondo senza frontiere, un mondo dove nessun umano e nessun animale è
illegale, varca confini, vìola proprietà private.<br>
Vogliamo un mondo in cui non si possa dire dei migranti che “vivono come
animali”, perché in un mondo senza patrie da difendere non ci sono
migranti; e perché nel mondo che vogliamo non ci saranno lavori da
schiavi e, soprattutto, perché avremo finalmente smesso di considerare
la vita animale una vita indegna di essere vissuta. Di qualcuno che
“vive come un animale”, come diceva Adorno, dovremmo piuttosto avere
invidia, perché ha trovato la misura del proprio stare al mondo, perché
fa un “bel nulla”. Mentre il nostro nulla, quello con cui riempiamo le
nostre giornate, non solo è oberato di cose inutili, ma è anche, è
proprio il caso di dircelo, terribilmente brutto. Gli manca la grazia
senza colpa e senza ansia dell’animale. E questa grazia continuerà a
sfuggirci finché non impararemo a condividere la vita, finché non
inventeremo un modo di stare insieme in cui al profitto sia sostituita
la solidarietà.<br>
Saremo un popolo, saremo terrestri solo quando praticheremo una
solidarietà che vada oltre la nostra specie. La verità di tutto quello
che ci piace raccontare di noi stessi sta fuori di noi, la sua misura è
nell’altro. Saranno solo e sempre gli altri a restituirci l’immagine di
ciò che siamo. E il nostro altro, per antonomasia, è l’animale. Rendiamo
giustizia all’animale se vogliamo mostrarci giusti. Solo allora
dimostreremo praticamente di essere quello che oggi ci illudiamo di
essere, solo allora parole come “giustizia”, “uguaglianza” e “libertà”
avranno trovato una misura che abbatta i muri, restituisca il maltolto,
affranchi la schiavitù. Se non sapremo liberare gli animali, se non
sapremo immaginare una libertà senza confini non riusciremo nemmeno a
vedere le nostre catene. La misura della nostra libertà è la libertà che
sappiamo tollerare nell’altro. Solo una smisurata libertà può
restituirci ad una vita che bandisca l’oppressione e lo sfruttamento.<br>
A chi ci dice che questi sono solo sogni, non abbiamo che da mostrare
l’incubo reale in cui siamo sprofondati, un incubo che è tenuto in piedi
dalla nostra illusione millenaria di essere una specie sovrana ed
eletta; senza questo sogno ad occhi aperti le mura delle nostre
prigioni, dei nostri mattatoi e delle nostre fabbriche non reggerebbero
un secondo di più. Il nostro mondo cambia in base alla pasta dei sogni
di cui è fatto. Siamo come Kafka, imprigionati nel corpo di un mostruoso
insetto in cui fatichiamo a riconoscerci. Ogni notte coviamo in sogno
lo stesso mondo mostruoso che al mattino seguente mettiamo in opera nei
gesti quotidiani. Vi chiediamo di cambiare il vostro sonno angoscioso
con un più dolce e ambiguo risveglio. Come Zhuangzi che sognò di essere
una farfalla ma non era sicuro, una volta desto, se la farfalla non
avesse piuttosto iniziato a sognare lui. Sognare la farfalla era stato
certo bello: quanto può essere bello per un animale sognare un umano?
Dovremmo iniziare da qui, indirizzare le nostre vite da svegli in modo
che non turbino i sogni degli altri animali. Cercare di essere qualcosa
che valga la pena di essere sognato.</p>
<p>Clicca sul link seguente per vedere il video della manifestazione a Roma:</p>
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