Quando le immagini perdono colore dinnanzi ai tuoi occhi, ti accorgi
d’un tratto che il tempo vola davvero. Riguardi vecchie foto o vecchie
riprese e non puoi che constatare come, a dispetto della brevità di un
ventennio nell’immensità della storia, c’è un progresso tecnologico che
in quel ventennio ha vissuto un’epoca e ce lo dimostra dentro la nuova
nitidezza degli scatti o dei filmati più recenti, l’accesa luminosità
dei colori. Eppure ci sono pezzi di storia le cui immagini non cambiano
mai, non scoloriscono, non riescono a entrare nel passato di un
individuo, di una famiglia, di una città o di un’intera nazione. Oggi
come ieri, le guardi e sai che è rimasto tutto com’era, o almeno sono
rimaste le emozioni terribili, il dolore, la rabbia e le domande a cui
chi poteva e doveva non ha voluto rispondere.
Ma gli esseri umani non sono immagini, non restano fermi dentro una
fotografia o una ripresa. Loro passano e spesso lasciano la scia del
loro esempio positivo, affidano il profumo dei propri valori a chi ha
saputo comprenderli, portarli avanti, sostenerli. La grande dignità, il
coraggio, la forza: tutto ciò rimane. Quando ho saputo di Agnese
Borsellino ero in macchina, casualmente vicino Arese, a poca distanza da
Milano, il paese nel quale vive Salvatore, fratello di Paolo e cognato
di Agnese. La mia testa è volata subito a due immagini ed è stata
attraversata da tre pensieri che si sono presentati, fulminei e
indomabili, con un ordine involontario. Le riprese in via D’Amelio poco
dopo la strage di quel maledetto 19 luglio 1992, lo squarcio nel
palazzo, i resti dell’esplosione sparsi ovunque, il giudice Caponnetto
che tiene la mano del giornalista e dice che “è finito tutto”. Subito
dopo, le immagini del funerale di Borsellino, il volto di Agnese, il suo
dolore e la sua composta dignità.
Questi due ricordi si sono sovrapposti immediatamente al pensiero
del suo amore per il marito, sostenuto in vita nella lunga e durissima
battaglia contro la mafia, nelle sue scelte, nei suoi ultimi giorni,
consapevole di una fine ormai scritta, certa. Subito dopo ho ricordato
le parole offensive rivolte ad Agnese dall’ex generale Subranni,
(accusato dalla signora Borsellino di essere “punciutu”, come il marito,
sconvolto, le aveva rivelato poco tempo prima della strage), le sue
insinuazioni sulla presunta incapacità di ricordare bene per via
“dell’Alzheimer”, lo sdegno che provai, l’indignazione, l’ammirazione
per la risposta chiara e netta, la voglia di vedere smantellato quel
castello di silenzi, omissioni, complicità e responsabilità che è stato
costruito attorno a Falcone e Borsellino.
Infine, ho pensato ai figli di Paolo Borsellino e di Agnese, ma
anche a Rita e soprattutto a Salvatore, a quanta rabbia promani da un
uomo dolce ma ostinato, che non cede, non si arrende, continua la sua
opera di ricerca della verità e, con il suo impegno, negli anni ha
permesso che l’opinione pubblica sapesse della trattativa, sapesse delle
inchieste delle procure antimafia al riguardo. In particolare ho
ricordato una cosa che egli mi ha raccontato: “Mia mamma, donna
fortissima, che aveva reagito non chiudendosi nel dolore ma
incoraggiandoci, raccomandò a me e a mia sorella Rita: ‘Voi non dovete
lasciare che tutto finisca così, dovete andare a parlare di Paolo, a
ricordare quello che è stato’. Quell’esortazione, unita a quel peso che
avevo dentro, mi spinse ad iniziare il mio impegno (“Dove Eravamo
–Vent’anni dopo Capaci e via D’Amelio”, 2012, Caracò editore).
La madre di Paolo Borsellino, come la moglie: donne coraggiose e
piene di dignità che hanno reclamato giustizia e verità, trasmettendone
il valore immenso a tutti coloro che oggi crediamo che vi si possa
giungere, nel nome di chi è morto senza riuscire ad averne. Questo è ciò
che ho pensato non appena ho appreso questa triste notizia. Un vortice
di sensazioni, l’ennesimo tuffo in questa storia che è di tutti quelli
che credono che ventuno anni fa lo Stato non abbia solo abdicato al suo
ruolo, ma lo abbia manovrato segretamente. Il giorno dopo, sui giornali,
ho letto che ai funerali di Agnese Borsellino avrebbe presenziato il
ministro Alfano, l’alfiere di Berlusconi, inviato del governo Pd-Pdl,
nominato da Giorgio Napolitano. E ho provato imbarazzo.
Allora, Le chiedo scusa cara Agnese, come italiano. E Le chiedo di
non perdonare mai questo Paese maledetto che fa sì che al Suo funerale a
rappresentare lo Stato sia venuto Angelino Alfano, il numero due del
Pdl, il partito di Dell’Utri, il partito che ha lasciato che un boss
mafioso fosse definito eroe, il partito che ha sempre negato tutto e ha
attaccato violentemente i magistrati antimafia e perfino marciato su
Milano occupando il palazzo di Giustizia, sporcando l’inno d’Italia
proprio sotto la foto di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino. Non è
cambiato molto nelle istituzioni rispetto a ventuno anni fa, non c’è
ancora la verità. E di questo sento anche io, da cittadino, di
domandarle scusa. Perché non ho fatto abbastanza. Ma la speranza di
Paolo Borsellino è viva, perché in questi ventuno anni per fortuna è
cambiata la gente, o almeno una parte. Adesso siamo molti di più a
chiedere questa verità. E di ciò dobbiamo dire grazie a Lei e alla sua
straordinaria famiglia che continueremo a sostenere.
Le chiedo scusa cara Agnese, come italiano. E Le chiedo di non perdonare mai questo Paese maledetto che fa sì che al Suo funerale a rappresentare lo Stato sia venuto Angelino Alfano, il numero due del Pdl, il partito di Dell’Utri.