Com’era prevedibile, anzi scontato nel clima di rimozione del Paese, le franche dichiarazioni di Piercamillo Davigo hanno irritato i tanti che vorrebbero una magistratura silente e allineata, implacabile nel punire i pesci piccoli, gli anelli più deboli, ma attenta a non spingersi troppo nelle acque profonde dove nuotano i pesci più grandi. Non sorprende, quindi, la levata di scudi di fronte alla denuncia coraggiosa di Davigo, che ha il solo torto di svelare che il “re è nudo” e così disturbare il manovratore.
È insorta la politica, ma non ha gradito nemmeno quella parte di magistratura “collaborazionista”, che vorrebbe più prudenza e rimprovera al presidente dell’Anm eccessi semplificatori e conflittuali. Non difendo Davigo, che non ne ha certo bisogno, ma le verità che ha detto, le stesse che ha e abbiamo ripetuto – in pochi – da anni, additati perciò come eretici per avere indagato e insieme denunciato le malefatte di una classe dirigente profondamente compromessa con i poteri criminali, una casta incapace di riformarsi, famelica, irredimibile, allergica al principio di responsabilità, sempre pronta a sacrificare l’interesse pubblico per il tornaconto privato, e che quando viene scoperta con le mani nel sacco parla di giustizia a orologeria e grida all’attacco politico e non fa mai autocritica, come se la colpa non fosse mai del ladro ma di chi lo scopre.
Ovvio che nessuno, tanto meno Davigo, pensa e dice che i politici “sono tutti ladri”. Ma falsificare le dichiarazioni altrui per meglio criticarle è usuale arma di distrazione di massa, che stavolta serve per non affrontare la questione morale posta invano da Berlinguer nel 1981. E da allora le cose sono solo peggiorate.
Come per la mafia, il problema non sta negli individui da perseguire, perché quando ne arresti uno, un altro gli subentra, ma nel sistema permeato di illegalità, mafie e corruzione facce della stessa medaglia, dove mazzette, appalti pilotati e favori agli amici sono la regola. Renzi invita i magistrati a tacere e a emettere sentenze. Ma quali sentenze? Dopo le macerie lasciate dal ventennio berlusconiano delle leggi ad personam e della devastazione dello Stato di diritto, che ha fatto finora Renzi se non fanfaronate e polemiche contro i magistrati fannulloni? Pensasse lui a parlare meno e a lavorare di più per riformare la giustizia, a cominciare dai suoi tempi, prescrizione compresa. Invece, con la retorica populista e pretestuosa del “fare”, Renzi sta rottamando i valori costituzionali, compresa l’indipendenza della magistratura.
Il nodo della questione morale non può essere risolto dalla sola magistratura, tanto più nelle condizioni in cui si trova e con le armi spuntate. Di fronte a una tale emergenza, di cui pagano lo scotto gli onesti, per i tempi sempre più intollerabili della giustizia, è la politica che dovrebbe attivarsi, con una seria riforma, e facendo pulizia al proprio interno, ben prima delle sentenze e al di là del codice penale, perché ciò che è penalmente irrilevante può essere eticamente rilevante e dunque determinante nella selezione della classe dirigente. Mentre in questo Paese alla rovescia, nella rincorsa all’irresponsabilità assoluta, penale, politica, etica e morale, si è arrivati al paradosso che il penalmente rilevante è premiato politicamente.
Il tutto in un’ansia di revisionismo, ammantato di nuovismo, e di resa dei conti, che investe perfino l’antimafia dove un gruppo di ex-professionisti dell’antimafia, ex-parlamentari come Francesco Forgione, ex-magistrati come Peppino Di Lello, ex-presidenti di commissioni legislative come Giovanni Fiandaca, dichiarano di voler costruire una “nuova antimafia”, iniziando – propone il prof. Fiandaca – ad “abolire il termine antimafia”. Quasi un ritorno ai bei tempi andati quando il giudice “ammazzasentenze” Corrado Carnevale nelle telefonate private definiva Falcone e Borsellino gli “incapaci dioscuri dell’antimafia” (sante intercettazioni che lo hanno rivelato!) e pubblicamente criticava la categoria dei magistrati antimafia.
Di revisionismo in revisionismo, quanto indietro torneremo? Rinunciando all’obiettivo di eliminare la mafia perché impegnati ad abolire l’antimafia e rinunciando a contrastare la corruzione per porre fine alla – inesistente ma ossessivamente ribadita – subalternità verso la magistratura, dove arriveremo? Ma perché non ristabilire una sana separazione dei poteri assumendosi ciascuno le proprie responsabilità? Su questo ha voluto opportunamente richiamare l’attenzione Davigo, ponendo un tema vecchio di decenni.
Non vedo lo scandalo. Tranne la pretesa di un Paese normale, in cui la magistratura sia davvero indipendente e non faccia sconti a nessuno, tanto più a chi ha responsabilità pubbliche. Un Paese in cui la legge sia davvero uguale per tutti. Anche per chi sta nel Palazzo e solo per questo si sente legittimato a essere al di sopra della legge.